

9/11
Perché l’11 settembre interessa agli studiosi di cinema e di televisione? In che modo gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono, così come il dirottamento del volo United 93, hanno influenzato la produzione audiovisiva dopo la tragedia? È possibile individuare anche una relazione tra i disaster movies che precedono le azioni terroristiche di Al Qaïda?
Dopo una estesa schedatura della produzione cinematografica e televisiva, è possibile riscontrare una corrispondenza biunivoca tra l’immaginario audiovisivo e la percezione degli attentati suicidi. La paura per il terrorismo islamico ha dato forma a maschere mostruose e disumane, che hanno incarnato l’orrore dell’11 settembre. Le serie televisive e i film sono serviti anche per elaborare il lutto delle tragedie vissute e la paura per nuove minacce imminenti, proprio a partire dalla condivisione di un misto di immagini fittizie e ricordi reali. Formule e modelli narrativi si sono fatti così più rigidi e stringenti, fino a creare degli schemi specularmente contrapposti uno di fronte all’altro: gli attentati imitano le rappresentazioni audiovisive almeno quanto i film e le serie riproducono le azioni terroristiche.
Questa linea di ricerca ha prodotto due monografie e un saggio, pubblicati tra il 2011 e il 2013.
Il primo volume dedicato a questo tema è Idioteque. L’11 settembre nell’immaginario cinematografico dell’Occidente, che si concentra sulla produzione cinematografica successiva all’11 settembre e a questo trauma correlata. La figura del sopravvissuto contribuisce anche a definire il nemico disumano, che assume le forme mostruose dello zombie, del vampiro, dell’androide e dell’alieno.
Il secondo volume si intitola Apocalypse When? Il «minuto e fragile corpo dell’uomo». Tre casi di studio sulle logiche dello Spettacolo e, nel terzo capitolo, passa in rassegna le serie televisive che hanno contribuito a “normalizzare” l’utilizzo sistematico della tortura contro il nemico disumano. La formula di George W. Bush, adottata per la Global War on Terror, è quella del «Whatever it takes» e conduce gli Stati Uniti ben oltre la soglia del rispetto dei diritti umani fissata dalla Convenzione di Ginevra. Le fotografie di Abou Ghraïb mescolano il proprio immaginario perverso ai video BDSM prodotti dalla Kink.com e distribuiti su larga scala nella rete.
Il saggio intitolato L’Événement. Les images comme acteurs de l’histoire, pubblicato sul volume da me curato Alter Ego. Identità e alterità nella società mediale contemporanea, fa il punto sulla curiosa discrepanza tra le fonti dirette che hanno fotografato o filmato il secondo impatto dell’aereo sul World Trade Center e il numero esiguo di fotografie pubblicate sulle prime pagine dei giornali internazionali. Su 7.000 potenziali fonti, si è deciso di pubblicare solo una trentina di fotografie in oltre 400 testate giornalistiche. Le motivazioni che stanno alla base di questa selezione così stretta delle fonti visive produce un deciso orientamento della narrazione politica dell’Avvenimento.
Questi tre testi obbediscono ad alcune riflessioni generali, proposte nelle citazioni che seguono.


«La presente assenza di futuro»
Giuseppe Giarrizzo, storico dell’Università degli Studi di Catania, mi scrisse un’e-mail di commento dopo la lettura dei primi appunti che avrebbero poi costituito Idioteque. Quella breve nota che mi inviò poneva la questione da una prospettiva differente: è il trauma al centro dell’attenzione dello storico. Perché intorno al trauma e alle emozioni conseguenti si cicatrizza la narrazione della storia.
«Perché la Shoah o l’11 settembre paiono collocarsi “fuori” dalla catastrofe? Forse perché da un lato si sono sottratti alla prevedibilità, e dall’altro trasformavano in disperazione il dubbio crescente sulla “tenuta” dell’umanità, che è il tema centrale della presente assenza di futuro, se non riusciamo a pensare un futuro migliore del passato» (Giuseppe Giarrizzo, 5 marzo 2009).


La catastrofe allo specchio
«Il cinema americano ama raffigurare catastrofi. L’elicottero che esplode in aria, l’automobile in corsa che viene avvolta dalle fiamme, il lanciamissili che abbatte un blindato portavalori obbediscono alla tradizione dell’action-movie, che regala polvere pirica e fuoco senza parsimonia. È un continuo gioco d’artificio, colorato e fragoroso, che coinvolge gli spettatori con ripetute iniezioni di adrenalina, dritte al cuore; uno shock stroboscopico, seguito da una fragorosa battuta di spirito; una sparatoria e subito una capriola; un lancio con il paracadute giusto in tempo per non essere catturati o per evitare l’esplosione di un ordigno a orologeria. Lo spettatore va sulle montagne russe, una salita ripida e poi giù a perdifiato, con il cuore in gola, urlando a più non posso, senza capire, senza pensare, senza analizzare nulla, godendo soltanto di questo spettacolo della distruzione che sta tutto intorno a noi e quasi ci accarezza, ma non ci colpisce, non ci ferisce. Mai. È una convenzione. Nessuno si sorprende. Nessuno ci fa caso. Fino a quando non avviene davvero. Fino a quando un aereo di linea si schianta contro un grattacielo di una metropoli americana. Il grattacielo è la Torre Nord del World Trade Center, l’aereo è la linea 11 dell’American Airlines e la metropoli è New York City. Allora sembra tutto assurdo, perché non si è arrivati in tempo per saltare giù col paracadute, per volare via col deltaplano dalla terrazza del grattacielo. Tutto sembra lentissimo. Una camera fissa su un grattacielo in fiamme, avvolto dal fumo e dalle grida di terrore e di dolore. E poi un corpo cade giù dalle finestre, dinoccolato come un pupazzo di pezza, inanimato come un manichino. Sembra vero. Sembra vivo mentre precipita. Poi un’altra ombra, un altro corpo in controluce, una sagoma dalle forme confuse, sembra un sacco di juta, come quelli usati per trasportare la posta, ma no, è un altro corpo che cade, un’altra persona che precipita. Zoom avanti della camera, che inquadra degli impiegati d’ufficio alle finestre, in maniche di camicia, che cercano di richiamare l’attenzione dei soccorsi. Qualcuno interverrà. I vigili del fuoco, sicuramente. Troveranno il sistema. Ma non succede niente. Camera fissa. L’incendio procede inesorabile. Tutto è lento e fatale come il fuoco e il fumo nero e denso che avvolgono l’edificio. Non c’è soluzione, non c’è salvezza, non c’è aiuto. Nessun salvataggio in extremis, nessun sospiro di sollievo per un finale a sorpresa, nessuna euforia. Non è adrenalina questa volta, ma una morsa che stringe il cuore di paura, che schiaccia le tempie in una garrota d’angoscia. E non fa riflettere, non fa pensare. Fa guardare, immobili, attoniti, impotenti. È il più grande spettacolo catastrofico di tutti i tempi, il più assoluto, il più essenziale. Un aereo che penetra in volo dentro un grattacielo ed esplode. Fuoco, fiamme, lamiere contorte e vetri infranti, fumo nero e denso.
Perché sovrapporre queste immagini? Perché raccontare la tragedia dell’11 settembre come se fosse la scena di un film? Perché l’11 settembre è stato prima di tutto l’immagine della catastrofe. Certo significa la morte di tremila persone, di individui innocenti, di civili inermi. Ma è stato anche, suo malgrado, spettacolo terrifico. E in questo ha scavalcato ogni possibilità di rappresentazione e di raffigurazione della paura. Dopo l’11 settembre, il cinema deve fare i conti con la realtà, con il fuoco vero e il sangue vero e la vera polvere, che seppellisce ogni speranza. Era inevitabile allora uno spaesamento. Era inevitabile che il cinema si fermasse, balbettasse, inciampasse sui suoi stessi piedi. Era inevitabile che l’immagine della catastrofe non fosse più la stessa. L’immaginazione, l’immagine in azione, veniva così tenuta sotto scacco dai ricordi reali, dalle immagini trasmesse a ciclo continuo da tutte le televisioni internazionali. Un ricordo condiviso tra tutti i cittadini del pianeta, per un’immagine globale, anzi globalizzata, della paura e del dolore. Da New Delhi a Kinshasa, da Teheran a Bejing a Oslo, tutto il mondo sogna lo stesso incubo, partecipa alla condivisione di un’immagine comune. Un’immagine che si solidifica in un ricordo collettivo e indelebile della morte di massa, inattesa e imprevedibile, che lascia tutti senza difese, senza risorse. E lascia a tutti la stessa irragionevole angoscia.
Il cinema non sarà più lo stesso. Perché lo sguardo non potrà più essere lo stesso. L’11 settembre 2001 la catastrofe si è guardata allo specchio».
(Idioteque, pp. 27-30)


Enrico Ghezzi intervista Slavoj Zizek
We wanted to see again and again repetitively just the same image. Twin Towers hit from here and hit from there and so on... But then I started to ask to myself: what was true function of this? Was it really a global catastrophe? And the more I think about it, the more I convince that after the first shock, the situation is not only re-normalized, but is even the opposite. This image of destroying, the last image, serves the purpose of returning things to normality-like that was not only before 11th of September, but even before this last crisis. My old idea is the exact opposite of the commonplace that we live in an imaginary western safe universe and then here the brutal reality intervened. No, I think that it was from somewhere around Vietnam times at least that the american society was unsure of itself. You know, it not longer had the old automatic trust in itself. Vietnam introduced the doubt. And whenever America intervened abroad it was a moment of doubt. «Are we justified to do it? We don’t know». The main result of September 11 was precisely the re-assertion of the old ideological securities. Now America feels again «we have the right to attack, we have the right to be the global policeman». So, against this background, I think the way to understand the meaning of this image, which ended all the images, is to oppose these types of catastrophes: let’s call them figure catastrophe and background catastrophe. In the West, we usually see figure catastrophe. I mean, against the background of normal satisfying random things, something horrible and shocking happens, and then this is of course a shock, but things return to normal. This would be Twin Towers, even in Moscow this Cecenian invasion and occupation of the theatre, even the Indonesian attack in Bali. Against the background of normal, something exceptional happened. But it isn’t like that in the Third World countries, because the catastrophe is permanent there, it’s the background itself. There it’s not that something horrible and then things return to normal. The normal way of things is a permanent catastrophe. So I think that the way this September 11th catastrophe functioned was not only a shock that shook us from our dream, but it was a kind of reminder of how happy we are in the background, in the normal state [...]. Wasn’t it September 11th re-appropriated by the mass-ideology as a reminder [...] that this shock happened against the background of our normal happiness? The idea was: how happy are we in our normal lives? This was a shock, but this shock reminded us how that other people, the Third World people, envies how happy we are. So I think, this was not a shocking event, that’s awaking us into the realities of terrible suffering of Third World, but it was right on the contrary a kind of real assertion of western self-con- sciousness. I think it was instantly, perfectly re-appropriated by an hegemonic ideology. Not only it re-appropriated, but it served to cement a kind of a new ideological pact.
(Fuoriorario, 2002)

