Opinioni e proposte

Opinioni, interventi, ipotesi, ragionamenti, interpretazioni. La libertà della scrittura, offerta a potenziali lettori occasionali, obbliga a mettere in ordine i propri pensieri. Dare loro forma significa organizzarli in una articolazione coerente e coesa.

Arrivare al punto o girarci intorno? Partire dal contesto, per poi stringere in cerchi concentrici, o scoccare una freccia dritta al bersaglio?

La scrittura è un procedere continuo ma esitante, tra sentieri torti e bivi oscuri, come nelle favole. Si sceglie cosa inquadrare e come inquadrarlo; si decide l'entità della luce e la dominante di colore; si inventano i movimenti di macchina, si gioca con la profondità di campo. Qualcosa verrà raccontato. Tutto il resto sarà taciuto e dimenticato.

Poi ci sono le proposte, che non riguardano solo il dire, ma anche il fare. Dopo 20 anni di ricerca pura all'Università degli Studi di Catania ho capito che non siamo niente se ci limitiamo a pensare e scrivere. Per questo ho affiancato alla scrittura un progetto che avesse radici nella terra, una ricaduta reale nel mondo reale, che è fatto di respiri di carne e di sangue. Così è nata l'associazione di volontariato SIMAMA.

associazione di volontariato SIMAMA

SIMAMA in swahili significa «alzati in piedi!» ed è quello che dobbiamo fare adesso, alzarci in piedi e prendere la parola per raccontare ciò che avviene in Repubblica Democratica del Congo. Leggi qui cosa si propone di fare l'associazione.

La scuola del rispetto

C’è un app da installare sullo smartphone: si chiama «Muslim Pro» ed è gratuita. Un’icona verde con scritte bianche in caratteri latini e in quelli arabi. Quando si attiva, appare una bussola che indica la direzione della Mecca, a cui si rivolgono tutte le preghiere; l’applicazione ha anche un promemoria sonoro, con la voce cantilenante di un muezzin per ricordare i cinque momenti giornalieri di preghiera. Ma l’elemento più curioso di questa app sono le Richieste di preghiere con un tema specifico: il lavoro che tarda ad arrivare, un problema di salute, la relazione con un familiare in difficoltà. Dal proprio telefonino si può decidere quindi di seguire i vari inviti a pronunciare insieme una preghiera, in maniera solidale. Ma per farlo correttamente occorre dedicare un tempo opportuno a questa pratica, altrimenti l’applicazione segnala l’errore di una “solidarietà superficiale e frettolosa” e si blocca. Educazione alla lentezza, al rispetto di un’azione che deve essere cosciente, meditata, certa.

Tutti i miei alunni musulmani hanno installato Muslim Pro sullo smartphone e quando suona, noi interrompiamo la lezione per lasciarli pregare. È un’azione che prende circa un quarto d’ora: vanno in bagno a fare le abluzioni rituali e poi mettono a terra il giubbotto per inchinarsi e recitare le proprie preghiere. Ogni giorno, al tramonto, c’è la preghiera da fare. Ogni giorno la lezione di italiano o di storia o di scienze può attendere qualche minuto, affinché gli alunni abbiano assolto il proprio dovere religioso. Credo che questa forma di rispetto abbia aiutato molto il dialogo interculturale anche su temi complessi come l’omosessualità e l’eutanasia, che pure abbiamo affrontato in classe. A un’apertura di ascolto e di rispetto, corrispondono altrettante aperture di ascolto e di rispetto. Mai in classe c’è stato un conflitto su temi religiosi o etici. Si ascolta l’opinione di tutti e nessuno cerca di imporre la propria visione morale o il proprio credo religioso. La Scuola è la Casa di tutti. E per questo deve restare laica. Possiamo andare a visitare le chiese cristiane e le moschee, andare insieme e imparare insieme. Così, per Sant’Agata, siamo andati nei luoghi della carcerazione e del martirio della Santa Bambina. I ragazzi hanno ascoltato le spiegazioni e hanno scattato foto ricordo dei luoghi sacri, col telefonino. Come dei turisti, curiosi di ciò che vedevano per la prima volta, senza nessun timore di considerare quella visita guidata un tentativo di evangelizzazione.

Occorre però, da una parte e dall’altra, mettere in discussione tutti i pregiudizi che abbiamo accumulato fin da bambini – e sono tanti – dalle favole tradizionali alla televisione, dalle filastrocche ai proverbi. È un lavoro lungo e faticoso perché si sono sedimentati nel nostro immaginario. Ma io ho imparato dai miei alunni che «Dio è con i pazienti». Almeno così è scritto sul Corano.

(pubblicato su «La Sicilia», 13 maggio 2017)

L’esclusione sociale sarà un fattore di insicurezza

Di fronte a noi, a perdita d’occhio, si distende il deserto della crisi economica. I mezzi di comunicazione di massa ci indottrinano tutti i giorni, con incredibile perseveranza, che dobbiamo aver paura. L’invasione dei poveri è una minaccia per il nostro benessere, per il nostro lavoro, per le nostre proprietà, per la nostra identità. I migranti sono giovani e affamati, arrabbiati e pronti a tutto, sono predatori, maschi musulmani che rifiutano sdegnosamente i nostri valori. Basta fare zapping tra i canali televisivi, in prime time sulle reti nazionali, basta scorrere la home di Facebook, per percepire la deriva sociale alla quale sembriamo ineluttabilmente condannati. E come il naufrago, che sta per affogare, si sbraccia confuso e scoordinato, sovrastato da ondate di panico e di acqua salata, così noi oggi ci isoliamo, incolleriti, cinici.

È possibile fermare i flussi migratori? Chi dice di sì è un ingenuo o un imbroglione. Dobbiamo quindi fare i conti con le trasformazioni che la nostra società sarà costretta ad affrontare, prima tra tutte l’interazione con i migranti. Ci sono due vie: la segregazione o l’inclusione sociale. O confiniamo gli Altri dentro un recinto separato, dietro un muro di cinta alto e invalicabile, o accogliamo i migranti prevedendo percorsi di inserimento nella nostra società. Si deve scegliere: non possiamo stare nel mezzo, non possiamo essere così incoerenti da trattare i migranti solo come un problema umanitario, perché che ci piaccia o no è un tema sociale. E la soluzione è culturale, prima di tutto.

Ho sentito dire e scrivere che non ci sono i soldi per l’intercultura. Ed è qui l’errore. Se non investiamo nei processi di mediazione interculturale, prima o poi avremo anche in Italia le Banlieue parigine, con il naturale corollario di atti di vandalismo e violenza quotidiani. O, peggio, avremo i terroristi di seconda generazione, come in Francia, nel Regno Unito, in Belgio. Gli esclusi socialmente diverranno manovalanza a basso costo per la criminalità organizzata, come già avviene nelle metropoli, con lo spaccio della droga, che è appannaggio di molti nordafricani arrivati in Italia quindici o vent’anni fa.

I soldi investiti nell’intercultura non sono visibili e commensurabili come i letti o i pasti caldi forniti nei centri di accoglienza, ma sono un investimento essenziale a lungo termine. Sono come gli interventi di manutenzione per il rischio idrogeologico. Ci accorgiamo se sono stati fatti, al momento dell’alluvione. Dobbiamo davvero aspettare la catastrofe? Dobbiamo aspettare l’attentato terroristico anche in Italia, per scoprire che il fenomeno poteva e doveva essere evitato?

«Il ruolo dei periodi di declino è di mettere a nudo una civiltà, di smascherarla, di spogliarla delle sue seduzioni e dell’arroganza legata alle sue realizzazioni. Essa potrà così discernere quanto valeva e vale, e quanto vi era di illusorio nei suoi sforzi e nelle sue convulsioni» (Emil Cioran, Squartamento, 1981).

La pizza di Touré

Mamadou Aliou Touré è nato in Guinea Conakry, il 28 gennaio 1999. È arrivato in Italia con un barcone, il 9 giugno 2016, quando era ancora minorenne. Al suo ingresso, secondo le leggi vigenti, viene classificato come «minore non accompagnato». Questo gli permette di rientrare all’interno della protezione dello SPRAR (acronimo che significa Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), che gli garantisce la collocazione all’interno di una comunità di accoglienza, insieme ad altri 14 ragazzi, con vitto e alloggio dignitosi, la presenza di educatori e di uno psicologo, ma anche la possibilità di partecipare a vari progetti interculturali, a partire dalla scuola.

A 17 anni la vita di Mamadou ricomincia, dopo i traumi e le paure che hanno punteggiato il suo viaggio lunghissimo e terribile, di cui non ama parlare.

A scuola, Mamadou si dà da fare. Dopo le prove d’ingresso, viene inserito in un gruppo intermedio, tra A1 e A2. Al CPIA (Centro Provinciale Istruzione Adulti) si lavora per “classi aperte”, tenendo conto di una serie di variabili: le strategie didattiche devono adattarsi a seconda della lingua ponte dell’alunno, solitamente inglese o francese; d’altra parte è impossibile tenere insieme chi è già scolarizzato nel proprio Paese d’origine, con chi ha frequentato solo una madrasa o, peggio, non è mai entrato in una classe, perché ha sempre lavorato in campagna.

Mamadou è sempre presente e puntuale a lezione. È attento e pronto a intervenire, con la sua mano alzata e lo sguardo che dice: «io io!». Però è rispettoso dei compagni e mai prevaricante. Ha qualche difficoltà a leggere, soprattutto, per certi difetti di pronuncia, ma ha una grande forza di volontà.

A lezione di tecnologia, con il professore Franco Carrubba, impara come si fa una pizza: scrive gli ingredienti sul quadernone e li legge ad alta voce, fiero del suo italiano conquistato. Il professore registra l’audio per realizzare un podcast da mettere on-line, con tutte le voci di tutti i ragazzi. Mamadou è orgoglioso di aver partecipato a questa lezione originale, un metodo innovativo di fare scuola e sperimentare ogni giorno qualcosa di diverso, di sconosciuto e stimolante. Perché la scuola, per i ragazzi stranieri, è una soglia. È una porta che si apre su un mondo nuovo. Si può abitare a Catania, chiusi dentro una comunità d’accoglienza per otto mesi, senza sapere che quella montagna lì, quella che si vede dalla finestra ogni mattina, in realtà non è una montagna, ma un vulcano. Non deve sorprendere. L’isolamento è tale, se non c’è opportunità di dialogo, se non si parla neanche delle cose futili con le persone “di fuori”. La comunità diventa allora luogo di segregazione, anche se ogni ospite può entrare e uscire liberamente. Ma dove andare? E con chi parlare? Certo, si può andare alla Villa Bellini, dove si incontrano altri ragazzi stranieri, che parlano la stessa lingua madre. Non il francese o l’inglese, che sono le lingue ufficiali della burocrazia, ma il bambara, il fula, il wolof, il mandeng. La scuola si contrappone a questa immobilità dell’esistente. Apre le porte dell’Europa e si fa confine permeabile. Questa è la sua missione, da sempre. Perché la scuola è inclusione sociale.

Il vitto, l’alloggio e la sanità sono elementi essenziali di qualsiasi politica di accoglienza, non c’è dubbio. Ma una persona non corrisponde alla somma dei suoi bisogni primari. C’è altro, c’è qualcosa in più che occorre offrire, perché sia vera accoglienza. Ed è l’intercultura. Provo a riprendere qui le parole dell’Imam della Moschea della Misericordia di Catania, Kheit Abdelhafid, che a un incontro con gli alunni stranieri del CPIA ha suggerito: «non integrazione, ci vuole interazione». Interagire vuol dire rivolgersi la parola, dialogare, confrontarsi tra culture diverse e distanti: l’intercultura è la strada maestra. La scuola lavora su questo, così come i progetti interculturali programmati dallo SPRAR o da Casa dei Popoli, che hanno costituito a Catania due decenni di buone pratiche. E questa dovrebbe rimanere la linea politica ed etica da perseguire.

Il 13 marzo la Prefettura di Catania delibera invece il trasferimento per Mamadou. È diventato maggiorenne e non ha più diritto alla protezione dei minori non accompagnati. Viene portato a Grammichele, in un istituto che non prevede nessun progetto interculturale, nessun programma scolastico. Niente. Lo chiamiamo al telefono, da scuola. È sconsolato: «qui non si fa niente, solo mangiare e dormire». Tre mesi di scuola, un efficace percorso di inclusione sociale, energie messe a profitto, tempo e fatica, voglia di fare, entusiasmo per le conquiste didattiche: il presente dei verbi, l’imperfetto e il passato prossimo. E poi? Tutto interrotto. Nuove ferite si aggiungono alle vecchie, un nuovo spaesamento, un nuovo isolamento.

È la legge che lo prevede. «E gli è andata bene», ci dicono gli educatori della comunità, «poteva finire al CARA di Mineo». Un centro mastodontico e disorganizzato, in mezzo al nulla della campagna di Mineo: 4.000 persone stipate in condizioni igieniche e abitative inaccettabili.

Questa è l’incoerenza di un Paese distratto, che spende i propri soldi per costruire qualcosa e poi sfaldare quanto di buono ha ottenuto. Questa è l’incongruenza di un’intercultura a singhiozzo, a targhe alterne. Dov’è la ratio di queste scelte? O, meglio, c’è una ratio, un disegno complessivo? Qualcuno le ha pensate queste decisioni o è semplicemente la banalità del male?

(pubblicato su «La Sicilia», 26 marzo 2017)

Racconti di ferro

Dietro le sbarre. Sbarre piene, verificate, messe alla prova con la rituale battitura ferri. Un suono a cui ci si abitua presto, in carcere. Gli agenti di polizia penitenziaria controllano regolarmente che non ci siano sbarre compromesse, tagliate, preparate magari per un piano di fuga, di evasione. Invece quelle sbarre devono garantire la sicurezza: sono state forgiate per separare il bene dal male, i buoni dai cattivi; anzi, per segregare i captivi.

Il mondo, senza criminali, viene così purificato, reso migliore; mentre i rei, rinchiusi nelle gabbie, schiumano di rabbia e si spengono di noia, dimenticati, rimossi.

Sono fuori dal mondo libero, fuori dai discorsi politici, fuori dai pensieri sociali. Sono segregati e segreti.

Ma la Costituzione, quella difesa a gran voce, senza se e senza ma, nell'ultimo Referendum prevede che la pena, in carcere, debba essere riabilitativa per il detenuto. Prevede un percorso di reinserimento nella società, quella cosiddetta sana, quella cosiddetta civile. Articolo 27: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Allora è tutto chiaro. Nessuno può sorvolare sull'attuazione piena e precisa della Costituzione italiana. Eppure non è semplice costruire un percorso di recupero valido per tutti i detenuti ristretti nelle carceri italiane. Troppi, loro; sovraffollati, gli istituti. Certo, qualcosa si è fatto e si fa tutti i giorni, con grande sacrificio di chi vive e lavora in carcere. C'è la scuola, che è il primo baluardo di legalità dello Stato italiano. C'è il lavoro inframurario, la messa alla prova, le pene sostitutive come case famiglia e comunità di recupero. I percorsi possibili sono tanti, alcuni più utili di altri. Ma la situazione non è semplice; e in tempi di crisi il disagio monta, per chi sta fuori e vieppiù per chi sta dentro un istituto di detenzione, senza poter lavorare, limitato nella libertà personale e ferito nella dignità umana.

C'è un progetto, piccolo, ma molto attento alle sensibilità di chi vive dietro le sbarre, organizzato dalla scuola carceraria del CPIA Catania 1 e dalla cattedra di Storia e critica del cinema del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania: si intitola “Cinema segre(ga)to”, con questo gioco di parentesi che rimanda a segregazione e segretezza come elementi caratterizzanti delle azioni culturali offerte e proposte ai detenuti. Qui è il cinema a svolgere un'opera di mediazione, a essere finestra sulla realtà e della realtà, perché ogni finestra è un'apertura biunivoca, che mette in contatto il mondo di dentro con quello di fuori e li fa dialogare. Un'esperienza breve, ma di grande intensità, che prevede quattro proiezioni di “cose audiovisive”, provenienti dal cinema, dalla televisione e dalla rete. Perlopiù brevi video, seguiti da discussioni aperte, queste sì libere, sulle impressioni e sulle sensazioni prodotte dalla visione. Ragionare insieme, confrontare le opinioni. Io ho visto questo, io ho sentito questo. Ognuno a mettersi in gioco con le proprie idee e attento ad ascoltare la voce degli altri, perché si parla a turno; ma solo chi vuole. Non è obbligatorio, parlare. C'è chi preferisce ascoltare gli altri, annuire o abbassare lo sguardo, quando il commento diventa intimo, confidenziale. C'è chi sorride, chi chiede una traduzione all'impronta, in inglese o in francese, perché viene dall'Africa e porta sulle spalle il peso di un'accusa infamante, da scafista o aguzzino per la tratta delle schiave. I fascicoli con le condanne si affastellano negli archivi degli uffici amministrativi. Detenuti per reati di poco conto convivono in cella con i condannati a lunghe detenzioni. Ognuno ha la sua storia segreta, ognuno coltiva dentro di sé il dolore della separatezza e il disagio della restrizione.

Abbiamo visto i film in chiesa. La cella più grande della casa circondariale di Piazza Lanza. Lo schermo nasconde l'altare, come in una chiesa ortodossa. La finestra aperta fa entrare nella sala un freddo umido e l'odore di muffa di un cortile interno. Luci al neon, lesene di marmo rosso bruno, icone sacre, un quadro di Don Bosco che sorride paterno, impianto elettrico del secolo scorso, con la piattina inchiodata sul muro; panche in legno, seduta rigida, da anacoreta. «Surfing is just pure fun»: questo c'è scritto sulla maglia di un detenuto africano. E c'è un surfista, stampato: biondo californiano, coi capelli al vento, che vola su una lingua di schiuma come un supereroe. Scivolare con la tavola sulle onde dell'oceano è forse una delle immagini più banali per rappresentare la libertà. Una semplificazione stereotipata da film d'avventura, un mercoledì da leoni, a caccia dell'onda più alta e della propria identità di ex adolescenti alle soglie dell'età adulta. Gambia, Somalia, Libia, Nigeria. Hanno attraversato l'inferno. E ora sono qui.

Guardo i riflessi delle storie nei loro occhi di spettatori, di sognatori.

Raccontare storie

Ogni giorno i TG nazionali propongono nuovi servizi sui migranti. Ci sono alcune linee narrative fisse, che procedono con rare variazioni sui temi principali, ormai rigidamente fissati dai palinsesti dell'informazione italiana. C'è la protesta contro l'Europa, che non considera i problemi dei Paesi di primo approdo. C'è il rischio del terrorismo islamico, che utilizzerebbe i profughi per infiltrarsi in territorio nemico. Ci sono i naufragi, visti da vicino, in maniera pornografica, con questa estetica del close-up oscena, i barconi che si ribaltano, i corpi che galleggiano a faccia in giù, i cadaveri raccolti e ammucchiati, i sacchi neri disposti in fila ordinata. E poi ci sono i numeri, un elenco inutile di vittime, di provenienze vaghe e imprecise, da regioni lontane, mute, al di là del deserto. L'Etiopia, il Mali, il Sudan o la Nigeria diventano un altrove indifferenziato, la terra dei poveri e della fame, della guerra e del terrorismo, delle carestie e della sabbia rossa e arida. Non ci sono differenze perché non ci sono distinzioni. E invece è necessario distinguere. È nostro dovere distinguere, per capire. E partire dalle storie delle persone, per conoscere la nostra storia, quella che stiamo vivendo oggi.

Per questo è stato prezioso, per me e i miei colleghi, insegnare quest'anno al CPIA di Catania, acronimo che rivela il nome burocratico di Centro Provinciale Istruzione Adulti. Il MIUR, che fa le riforme solo se riesce a risparmiare qualche posto di lavoro – anche se poi la chiama “razionalizzazione” – ha avuto invero una buona idea: sostituiamo le vecchie scuole serali, ormai in disarmo e sottoutilizzate, e ricicliamo la forza lavoro per una nuova utenza che ha grande bisogno di professionalità didattiche “di frontiera”. Dal recupero scolastico nei quartieri a rischio, all'insegnamento dell'italiano per stranieri, è stato tutto molto rapido, un colpo di mano del Ministero, una trovata di ingegneria sociale. Gli utenti c'erano e tanti; e i docenti si sarebbero saputi adattare, abituati da anni di elasticità didattica che li ha resi dei veri funamboli. E così abbiamo incontrato i nostri ragazzi. Alcuni arrivati in Italia da un anno, la maggioranza qui da pochi mesi. Spaesati, assolutamente segregati dalla cittadinanza locale, senza conoscere né la lingua italiana, né il dialetto catanese, senza avere idea delle tradizioni culturali e delle abitudini di comportamento. Alieni, in una parola. A dicembre, quando sono entrato al CPIA, ho incontrato questi alunni curiosi e aperti al confronto, desiderosi di conoscere una lingua difficile e una società complessa. E ho ascoltato le loro storie. Raccontare e raccontarsi è la regola dell'intercultura. La scuola è anche questo. La buona scuola è fondamentalmente questo. Sì, istruzione, ma anche educazione. Perché la scuola genera cittadini e contrasta l'esclusione sociale. Non sono solo parole, sono pratiche quotidiane, che pongono al centro della didattica lo studente, il valore della sua esistenza e la sua storia personale.

I racconti dei nostri giovani alunni sono avvincenti e hanno una struttura tripartita. C'è un prima, la permanenza nel Paese d'origine, sempre descritto con amore e nostalgia. Territori rigogliosi di vegetazione, ricchi di materie prime e di coltivazioni agricole. Poi sopraggiunge la crisi, il colpo di Stato, la guerra roboante o la guerriglia strisciante, la minaccia politica o religiosa. La necessità di una fuga.

Il secondo capitolo del racconto è più rocambolesco e avventuroso, ma non c'è mai orgoglio nelle parole che lo descrivono. Non c'è eroismo nelle azioni. Tutto è guidato dall'istinto di sopravvivenza, da mille compromessi e accordi con gente spregevole. Segnati da percosse, violenze e minacce, dalla paura di perdere la vita per strada, nelle sommosse, in prigione, nel deserto, in mare. Perché in fondo, per noi italiani, il viaggio è tutto in quei pochi giorni sul barcone, dimenticando il lungo tragitto percorso sulla terra ferma, durato mesi o anni. Le ferite più profonde sono spesso legate all'attraversamento del deserto o alla prigionia in Libia. Ma ogni migrante ha una storia diversa e qui non vogliamo certo generalizzare.

Il terzo capitolo della storia è l'arrivo in Sicilia, il controllo delle forze dell'ordine, la schedatura e l'accoglienza nelle comunità. C'è riconoscenza negli occhi dei migranti. E c'è voglia di rendersi indipendenti il prima possibile, con lo studio, il permesso di soggiorno di lunga durata, il diploma e l'avviamento al lavoro. Yaya, arrivato dal Burkina Faso farà il fabbro; Ebrima, che viene dal Gambia, farà un corso di elettricista dopo l'esame di terza media; Charlene, che studiava criminologia in Costa d'Avorio, lavorerà come commessa in un negozio d'abbigliamento, grazie alla sua passione per la moda; Arouna, arrivato dal Mali, ha già fatto un corso di pizzaiolo e ora lavora nella ristorazione con un contratto a tempo indeterminato; Abbas, anche lui del Mali, non ha superato a maggio il test di italiano, quindi farà l'esame a marzo 2017 e poi andrà a fare l'agricoltore; Moussa, Blessing, Solomon e Trouma hanno fatto passi da gigante coi verbi irregolari italiani e continueranno la scuola l'anno prossimo. Hanno attraversato l'inferno per raggiungere le nostre coste e dobbiamo condividere con loro la speranza di un futuro migliore.

Anch'io voglio raccontare una storia. Tra gli strumenti didattici, al CPIA abbiamo utilizzato molto l'audiovisivo. Pubblicità, cortometraggi e qualche lungometraggio cinematografico. I film, in lingua italiana e sottotitolati in italiano, sono stati utili per l'apprendimento linguistico, ma sono serviti anche a fare emergere dalle immagini, i ricordi, che venivano condivisi con tutta la classe. Alla fine dell'anno, dopo una lunga e accurata preparazione, abbiamo proiettato Fuocoammare di Gianfranco Rosi, un documentario sull'emergenza dei soccorsi nel Canale di Sicilia. Un film coraggioso, onesto e sincero, che prova a rappresentare le difficoltà dei salvataggi in mare e l'eroismo dei militari italiani, su motovedette ed elicotteri. Rosi, con il suo sguardo asciutto e rispettoso, ha seguito per un anno le attività di Lampedusa, senza mai indugiare sul dolore dei naufraghi o sui corpi delle vittime. Alla fine della proiezione, Charlene, con la faccia seria, mi ha detto: «signore, domani vi porto un documento». L'indomani, a scuola, mi ha mostrato il report dell'audizione con il funzionario del Ministero dell'Interno. Quattordici pagine che raccontano le minacce e le persecuzioni politiche che l'hanno obbligata a lasciare la Costa d'Avorio. E lì, ho capito. Senza quelle pagine, senza quelle parole, il film di Rosi non ci permette di comprendere. Il cinema, da solo, non basta. Ci vuole la voce delle persone, disposte a raccontare la propria storia.

(pubblicato su «La Sicilia», 16 giugno 2016)

Perché ricordare Kiarostami?

Quando nel 1993 il Cinestudio Ariston programmò in rassegna due film di Kiarostami, pochissimi erano gli spettatori che lo conoscevano. I film erano E la vita continua (1992) e Close-up (1990).

Fu una folgorazione, perché non avevamo mai visto niente di simile.

In quegli anni non era facile accedere al cinema d'autore. Spesso le opere più interessanti non venivano scoperte dal mercato Home Video, che allora utilizzava esclusivamente il supporto VHS. Quindi i film si potevano vedere nelle rassegne illuminate, come il Cinestudio, oppure si andava a caccia dei titoli degli autori amati nei festival del cinema, in giro per l'Europa. Non c'era altro.

Internet impiegava 3 minuti per caricare una fotografia a bassa risoluzione e il mondo della distribuzione audiovisiva non aveva Amazon, ma solo qualche videoteca a cui si accedeva come degli adepti (ricordo, a Ragusa, la meravigliosa Casablanca).

Non è la nostalgia dei miei vent'anni che mi spinge a scrivere, ma la presa di coscienza che quel mondo del cinema non esiste più. Era un mondo faticoso, ma rassicurante, coerente nelle possibilità che offriva a chi voleva fare ricerca e preventivava un certo numero di sacrifici. Ricordo i viaggi in Panda 750. Aveva solo 4 marce e si surriscaldava come un boiler, sull'autostrada Catania-Messina. Ma bisognava andare tutti i giorni, dalle 9 di mattina alle 2 di notte al Festival per eccellenza, in Sicilia, quel meraviglioso geyser che era TaoCinema, con la direzione artistica di Enrico Ghezzi (1991-1998). Lì non solo trovavamo il cinema che ci entusiasmava e ci conquistava, ma c'erano anche gli autori dei film proiettati nelle sale del Palazzo dei Congressi e del Teatro Antico. Non c’erano i divi, come oggi, ma gli autori, che si lasciavano avvicinare, intervistare, che davano consigli, aiutavano nelle ricerche di tesi di laurea presuntuose, debordanti, scientificamente sconsiderate, ma coraggiose.

Prima di tutto, c'era una comunità. Ecco, la differenza principale tra oggi e quel tempo lì, il motivo per cui forse quella realtà ci manca tanto, sta proprio nel senso di comunità che i grandi autori e i critici – quelli strutturati insieme a quelli giovani – condividevano attraverso l'esperienza della visione collettiva. E in fondo, andare al TaoCinema di Ghezzi ci sembrava il normale completamento degli studi umanistici, una sorta di summer school. Dopo la sessione estiva, dopo aver aggiunto due o tre esami sul libretto blu, si andava a questo corso di approfondimento, tematico, sul cinema d'autore.

A più riprese, tra il 1993 e il 1997, incontrammo Abbas Kiarostami: una volta era in giuria, un’altra presentava in una straripante conferenza stampa Il sapore della ciliegia, che aveva vinto la Palma d’Oro a Cannes, ex-aequo con The sweet hereafter di Atom Egoyan. Una volta, invece, fece una lezione nella sala conferenze del San Domenico di Taormina. Ricordo perfettamente quell’incontro: Kiarostami, ieratico, occhiali scuri e tono di voce basso, misurato. Sembrava timido. La sala era enorme e senza aria condizionata, gremita all'inverosimile di critici cinematografici, giornalisti e fotografi. Le porte-finestre spalancate sul cortile in cotto lasciavano entrare, insieme all’afa di fine luglio, una luce colore albicocca. Kiarostami parlava in farsi, con la cantilena inconfondibile della lingua persiana, tradotto come sempre da Babak Karimi. E fu una lezione di cinema indimenticabile. Di sé, disse che non aveva mai sperimentato il cinema professionale. Aveva fatto il pubblicitario, il grafico, il pittore, l’illustratore di libri per bambini. Poi, lavorando proprio con i bambini aveva cominciato a utilizzare la macchina da presa. Ed era nato Pane e vicolo, il suo primo cortometraggio, prodotto dall'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale di Giovani e Adolescenti. Tutto era avvenuto naturalmente, senza studiare la tecnica o il linguaggio. Kiarostami aveva cercato qualcosa da narrare e l’aveva raccontata. Per questo suo modo di lavorare non era amato dai professori di cinema di Teheran. Per loro era un selvaggio, un autodidatta, che “maleducava” i suoi allievi dei laboratori, in giro per il mondo. One day shooting, si intitolava il suo corso. E si arrivava a girare davvero in un solo giorno. Perché proprio in quell’immediatezza c’è la forza del suo realismo cinematografico.

Forse per questo, il passaggio al digitale fu per lui assolutamente naturale. Com’era avvenuto per Pasolini, altro selvaggio del linguaggio cinematografico, si recò nel continente africano con una camera amatoriale. Pasolini utilizzò una 16mm per registrare le sue note, che divennero gli Appunti per un’orestiade africana (1970). Kiarostami portò con sé una Sony PC100, una poverissima Mini-DV, con la quale realizzò Abc Africa. In entrambi i casi l’urgenza espressiva ebbe la prevalenza sulla tecnica. In entrambi i casi, la sincerità e l’onestà della rappresentazione erano alla base dei loro progetti. Il realismo non è nella scrittura di un film. È nello sguardo del suo autore, nell’approccio con cui si sceglie il punto macchina, in cui si tiene una sequenza in tempo reale. Per questo voglio ricordare qui due scene, due esempi perfetti della ricerca cinematografica di Kiarostami.

La prima è la sequenza finale, in video, del film in 35mm Il sapore della ciliegia. Riprese trovate, di una fine non fine, di una narrazione non conchiusa, ma lasciata in forma di bozza per dar spazio allo spettatore, alla ricezione, alla negoziazione dei significati da parte di chi guarda.

La seconda è una scena de suol documentario africano, girata interamente al buio. Kiarostami dialoga con i membri della troupe. Si trovano in un villaggio ugandese, che a mezzanotte stacca l’erogazione dell’energia elettrica. Si sentono solo le voci, spaesate, che commentano in lingua farsi e i sottotitoli bianchi brillano nel buio pesto: «se ne va la vita… Non posso pensare nessun altro posto in questo mondo dove il sole possa essere più prezioso e benvenuto. Vivono metà della loro vita tra queste mura buie come dei ciechi. La nostra unica fortuna, come uomini, è che possiamo adattarci a tutto». Lo schermo è nero, per poco meno di otto estenuanti minuti. Lo Spettacolo negato diventa un’esperienza spettatoriale. È questo il realismo di Kiarostami, la sua forza espressiva è tutta nella capacità di rinunciare a ciò che è superfluo, che è costruzione tecnica, sovrastruttura ideologica. Il cinema è luce? E lui per quasi otto minuti la spegne, la luce. Ma quando fuori dalla finestra l’alba illumina i contorni della stanza, è come se fosse la prima inquadratura della storia del cinema. È come se facessimo l’esperienza di guardare, per la prima volta, l’uscita dalla fabbrica dei fratelli Lumière.

La Sicilia è il sogno di una cosa

Sotto la crosta c'è l'immagine.

Sotto lo splendore, sotto il luccichio, sotto il vetro; sotto l'immagine stessa.

Per vivere un sogno bisogna romperlo (svegliarsi), per raccontarlo bisogna tradirlo,

perché esista (per gli altri: amici analista se stesso) bisogna fingerlo e inventarlo il sogno 

(Enrico Ghezzi, Paura e desiderio).

 

Prendo a prestito il bellissimo titolo di Pier Paolo Pasolini, che oscilla e rimbalza nervosamente tra due polarità, il sogno e la cosa.

Il sogno è la parola che descrive, l'immagine che rappresenta, la narrazione che racconta in maniera fluttuante e avvincente. La cosa è la realtà, nella sua quotidiana persistenza, noiosa e contraddittoria, confusa e complessa. Il sogno e la cosa, magneticamente, si attraggono o si respingono. Quando si attraggono, abbiamo conati di realismo, la negoziazione faticosa dei significati, la complessità. Quando sogno e cosa si respingono, prende il sopravvento l'intrattenimento spettacolare, lo stereotipo, la semplicità.

Il cinema, la televisione e l'internet pongono un problema ineludibile quando tentano di rappresentare, raccontare, raffigurare, mettere in forma di audiovisivo la realtà, perché costringono il fruitore, ogni fruitore, a chiedersi preliminarmente: posso credere? Posso fidarmi?

Lo spettatore si fida e si affida. Si dice tecnicamente, sospendere l'incredulità. Cioè divenire creduloni, stringere un patto, sottoscrivere un contratto fizionale. Durante l'ora e mezza del film, lo spettatore si lascia imbrogliare, ingannare, irretire. Sa che di fronte ai suoi occhi non c'è la realtà, bensì la narrazione spettacolare e si compiace della fruizione, apprezzando il modo in cui il racconto si snoda e le sequenze audiovisive sono articolate in rapida successione. Lo spettatore gode della fotografia e della regìa, delle inquadrature e dei personaggi, delle relazioni che li legano e dei conflitti che li contrappongono, delle locations reali e dei set fantastici. Ma soprattutto, gode degli immaginarî. Perché è sempre l'immaginario a prendere il sopravvento sull'immagine, a guidarla, a renderla riconoscibile, riconosciuta, familiare e per questo credibile, creduta, desiderata infine. C'è sempre di mezzo il desiderio, quando si idealizza, si generalizza, si semplifica. L'immaginario della Sicilia è ancora legato mani e piedi (incaprettato, si diceva una volta) agli stereotipi di una terra di passioni incontrollabili, amore e vendetta, sangue e lacrime di gioia e di paura. E questa Sicilia feroce e generosa, irrazionale e ospitale è la stessa raffigurata e raccontata dai film a soggetto, che hanno segnato la storia del cinema italiano: La terra trema (1948), Salvatore Giuliano (1962), Il Gattopardo (1963), Sedotta e abbandonata (1964), Il giorno della civetta (1968), Malizia (1973), Kaos (1984), Nuovo cinema paradiso (1988). Tutto appare coerente e, appunto, credibile agli spettatori. Anche i siciliani finiscono per aderire alle aspettative cinematografiche nazionali, a riconoscersi obbedienti alle maschere che gli sceneggiatori e i registi di talento e di successo hanno saputo e voluto costruire diligentemente. Prevale così la forza normalizzatrice dell'immaginario sull'anarchia delle immagini stesse, la formula pregiudiziale, sulla ricerca dubbiosa ed esitante. Le immagini restano ambigue, aperte a letture plurime, fluide e difficilmente collocabili ideologicamente. Gli immaginarî, invece, sono stabili e duraturi, legati a precise funzioni di propaganda, univoci nelle possibilità di interpretazione. Quando le immagini diventano immaginario ormai non c'è più niente da fare: il livello di accumulazione di Spettacoli e di incrostazione ideologica è tale che le immagini hanno abbandonato lo stato liquido e si sono calcificate. A quel punto, non resta che il martello per abbattere tali concrezioni di significato, stalattiti di pietra edificate dallo stillicidio continuo e costante dell'acqua.

Goccia dopo goccia, immagine dopo immagine, tutto il cinema imprigiona gli sguardi entro forme stereotipate? Certamente no. Non c'è la rappresentazione completa e perfetta della Sicilia, concepita come un monolite unico e semplice. Sopravvivono invece sguardi diversi, figure, sequenze e inquadrature composite, passioni, paure, desideri plurali. Ma questa ricchezza delle differenze, questa varietà sorprendente di colori, gradazioni e sfumature, non è accessibile alla maggior parte dei fruitori, resta nascosta, sconosciuta ai più, relegata ai margini della distribuzione audiovisiva e, nello stesso tempo, non cercata, non esplorata, non scoperta da chi guarda, da chi fruisce. In passato perché c'era una limitazione delle fonti: poche sale cinematografiche, sparute rassegne, rare retrospettive, festival preclusi ai non addetti ai lavori. Bisognava faticare tanto, viaggiare moltissimo, investire tempo, energie e denaro per vedere le rappresentazioni libere, incerte, indipendenti. Oggi, invece, nell'epoca felice del web 2.0, di YouTube e di Vimeo, del file sharing pirata e del BitTorrent più selvaggio, oggi che l'accessibilità è stata ormai ampiamente e definitivamente conquistata grazie alla diffusione capillare della tecnologia digitale portatile e dell'allargamento crescente della banda, oggi che i contenuti sono disponibili a portata di click, su computer, tablet e smartphone, manca una bussola per orientarsi. On-line c'è tutto; e questo confonde e oscura, nasconde e allontana le rappresentazioni audiovisive che non obbediscono alle formule riconoscibili. Così si continua a fruire contenuti simili, con minime variazioni tra loro, rassicuranti proprio perché obbedienti alle regole degli immaginarî consolidati. Ma proviamo a mettere a fuoco il problema da un'altra prospettiva.

La cultura audiovisiva prodotta per tentare di rappresentare la Sicilia è infinitamente più variegata e composita di quella consumata dalla preponderante maggioranza dei fruitori; e non mi riferisco soltanto agli spettatori siciliani, ma anche al pubblico nazionale e internazionale. E perché questa lunga premessa non appaia un giudizio dogmatico oppure un astratto ragionamento di teoria della rappresentazione, propongo tre esempi di applicazione di modelli stringenti, in grado di vincolare la narrazione audiovisiva della Sicilia. Tre immaginarî, per cogliere la portata delle limitazioni nella negoziazione dei significati da parte degli spettatori.

Il primo esempio, in ordine cronologico, si consolida alla fine degli anni Cinquanta per poi decadere all'inizio degli Ottanta. In Sicilia, tutti credono fermamente che il futuro dell'isola sia l'industria petrolifera. È un sogno che prende forma e si radica lungo le coste assolate e incontaminate di Gela, di Priolo e di Milazzo; un sogno che trae origine dalla speranza affamata di chi non aveva nulla e viveva in uno stato di miseria e di ignoranza; un sogno di sviluppo senza progresso che scolorerà dopo un ventennio in delusione, per tramutarsi infine in un incubo di disoccupazione e insalubrità dei luoghi. Ma andiamo con ordine. L'ENI sceglie Gela, la zona della Sicilia più arretrata e indigente. Non si tratta esclusivamente di investimenti economici, della fondazione di nuovi quartieri, della costruzione di strade, fognature e rete elettrica. C'è una narrazione a sostegno di questo progetto, un sogno raccontato e condiviso. Mattei parla ai siciliani, con il cuore, poche ore prima di morire, nel suo memorabile discorso di Gagliano Castelferrato e li rassicura. Ci sarà lavoro per tutti. Dovranno richiamare chi è emigrato, perché la Sicilia avrà bisogno delle braccia di tutti i suoi figli. Ed è proprio questa la narrazione che conquista ogni politico siciliano, ogni sindacalista, ogni intellettuale dell'epoca. Perfino Leonardo Sciascia, l'illuminista, è soggiogato da questo racconto di riscatto per la sua terra. Non c'è spazio per dubbi e incertezze, perché di fronte alle strade sterrate e ai bambini scalzi e sporchi di terra, all'analfabetismo endemico, alla povertà che abbrutisce le famiglie, tra promiscuità e problemi igienico sanitari, la speranza è l'unica moneta di cui i siciliani sono in possesso. E questo immaginario solido e sicuro vive nei bellissimi film documentari prodotti dall'ENI, come Gela: pozzi a mare di Vittorio De Seta (1959), Gela antica e nuova e Il gigante di Gela di Giuseppe Ferrara (1964) e da Palma a Gela di Gilbert Bovay (1965). Non è un caso che resti escluso dalla visione del pubblico italiano, il progetto cinematografico più originale e interessante voluto dallo stesso Mattei e prodotto dall'ENI, affidato alla regìa dell'anarchico e giramondo Joris Ivens e intitolato L'Italia non è un Paese povero (1960). Il documentario, con il commento sonoro di Alberto Moravia e una collaborazione per la parte siciliana dei fratelli Taviani, era stato pensato per una diffusione della RAI. Ma venne censurato, il negativo venne smembrato e rimontato, poi perduto nella sua versione originale e mai mandato in onda dalla televisione di Stato. Anche questo è il potere dell'immaginario, non solo di mostrare, ma anche di saper occultare e ridurre al buio silenzio dell'oblio tutto ciò che non è riconducibile alla visione serena e riconciliata di un futuro siciliano certo e felice.

Il secondo esempio di immaginario è difficile da interpretare: è la Mafia degli appalti e degli accordi con il mondo politico. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, la Sicilia è un cantiere polveroso e disordinato. Salvo Lima e Vito Ciancimino danno vita al sacco di Palermo (1956-1970), mentre a Catania l'IST.I.CA. (Istituto Immobiliare Catania) realizza lo sventramento di San Berillo (1957-1969) e la deportazione di 30.000 persone nel quartiere San Leone, di nuova fondazione. In quegli anni di speculazione edilizia rapace e sanguinaria, la Mafia degli appalti miliardari e delle variazioni sui piani regolatori sembra non esistere. Ne sono un esempio i film di Francesco Rosi: Salvatore Giuliano arriva nelle sale nel 1962, ma rappresenta i fatti dell'immediato secondo dopoguerra. La strage di Portella della Ginestra risale al primo maggio del 1947 e la stessa morte del bandito è del 5 luglio del 1950. La Mafia raccontata da Rosi è ancora arretrata e agricola; offre ai latifondisti la propria mediazione di controllo violento contro i contadini comunisti. Non si evidenziano rapporti con la politica, elemento cruciale mancante, secondo le accuse di altri autori, come Paolo Benvenuti (Segreti di Stato, 2003) Il livello politico appare il grande rimosso, almeno in Sicilia. Lo stesso Rosi ambienta a Napoli, invece, Le mani sulla città, che centra il problema della relazione tra criminalità organizzata, imprenditoria e amministratori locali. Non è un caso che il Peppino Impastato di Marco Tullio Giordana (I cento passi, 2000) decida di proiettare nel cineforum di Cinisi proprio Le mani sulla città di Rosi, per spiegare ai suoi concittadini cosa stava avvenendo alla fine degli anni Settanta a Palermo con gli appalti dell'aeroporto e delle autostrade. Per cogliere anche sulla rappresentazione della Sicilia questo aspetto della Mafia finanziaria, bisognerà aspettare il 1984, con lo sceneggiato televisivo La Piovra. E questo la dice lunga sulla capacità di fare autocoscienza attraverso i media audiovisivi. Per quanto riguarda Catania e in special modo la ferita aperta nella città dallo sventramento di San Berillo, mi piace segnalare quattro progetti indipendenti e molto distanti tra loro, per estetica e approccio, ma tutti concentrati su questo tema, evidentemente tornato caldo e appassionante: Quasi niente è cambiato di Elena Russo (2011), Le voragini di San Berillo di Carlo Lo Giudice (2013), I fantasmi di San Berillo di Edoardo Morabito (2013), vincitore del Festival di Torino dello scorso anno, e Gesù è morto per i peccati degli altri di Maria Arena (2014), appena presentato al Festival dei Popoli di Firenze.

L'ultimo esempio di immaginario, che presento come ulteriore prova della mia teoria della rappresentazione, riguarda gli anni che vanno dalla seconda metà dei Novanta ai giorni nostri. È il tema dell'invasione dei poveri attraverso la formula dello sbarco dei disperati a Lampedusa. Qui il ruolo di guida è svolto dalla televisione e non più dal cinema. Anche l'internet riprende acriticamente tutte le formule stereotipate dell'invasione, ma senza il politically correct che contraddistingue il medium televisivo. Spesso, sbrigativamente, si passa alle minacce e agli insulti, sul web, citando fonti approssimative e dichiaratamente razziste. Ma facciamo un punto di chiarezza. Quanti sono gli stranieri che arrivano in Italia con il barcone? Secondo quanto raccontato quotidianamente da tutti i telegiornali regionali e nazionali sembrerebbero una indiscutibile maggioranza. E invece sono intorno al 7%. Ciò significa, che il 93% degli stranieri che arriva in Italia sceglie l'aereo. Magari resta sul territorio italiano per un periodo più lungo rispetto a quello coperto dal visto turistico e diventa così irregolare. Ma allora perché la percezione del pubblico televisivo è diversa? Qui rientra propriamente il ruolo dell'immaginario, che ha bisogno di ricorrere allo Spettacolo per irretire il pubblico. Immagini potenti che abbiano la capacità di emozionare e soprattutto di incutere paura dell'Altro. Perché la paura può essere sfruttata a fini propagandistici e più volte Lampedusa è stata usata come spauracchio in campagna elettorale. Soprattutto a discapito dei lampedusani, che si sono viste cancellare centinaia di prenotazioni di turisti spaventati di rovinare le proprie vacanze a causa di una presenza invadente di extracomunitari extraterrestri. La narrazione dell'invasione dei poveri, l'avventuroso viaggio della speranza, il periglioso mare in tempesta, il naufragio, fanno tutti parte delle più antiche e sicure strategie della messa in scena, gli aristotelici terrore e pietà. E la verità dell'informazione? Paradossalmente non sta sui telegiornali, perché è troppo complessa per essere spiegata nel servizio di tre minuti e mezzo. Lì si danno i numeri: 180 clandestini, 12 corpi recuperati, 3 donne incinte, 18 minori non accompagnati, 67 africani, 120 siriani, richiedenti asilo. Numeri. Ci vuole invece la mediazione della parola e dell'immagine per cogliere un fenomeno così inintelligibile. Ho visto molti film su questo tema. Alcuni superficiali e imbarazzanti, come Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana (2005). Altri appaiono onesti, ma confusi ed esitanti, ad esempio Come un uomo sulla terra di Andrea Segre (2008). Ma ci sono due documentari, restati ai margini della distribuzione, anche festivaliera, che ho apprezzato molto per la la schiettezza e per il valore di testimonianza. Sono di un autore lampedusano, Antonino Maggiore, che per mestiere fa l'operatore di ripresa di quei telegiornali che reiterano sempre la stessa filastrocca. Ma lui no, perché ci mette cura e attenzione e realizza dei documentari non perfetti, ma straordinariamente sinceri, come La collina della vergogna (2011) e I giorni della tragedia, che riporta come sottotitolo Lampedusa 3 ottobre 2013. È il naufragio più grave della storia dell'Europa, quello che ha visto soccombere 366 migranti accertati e 20 dispersi. Antonino Maggiore intervista i soccorritori intervenuti nell'immediatezza del naufragio a poche decine di metri dalle rive candide di Lampedusa. Sono i giorni in cui si recuperano i corpi e l'isola è straziata dal dolore per la morte di questi fratelli africani. Ma c'è anche tanta rabbia di fronte alle istituzioni che si mostrano incapaci di far fronte a una situazione difficile, ma conosciuta. È più facile gestire l'emergenza, chiedere fondi consistenti alla Comunità Europea e scambiarsi accuse a vicenda tra istituzioni regionali, nazionali e comunitarie. L'ultimo film che voglio qui segnalare, proprio perché relegato a una distribuzione marginale attraverso il canale digitale terrestre di TV2000, è LampeduSani di Costanza Quatriglio (2014), che indica nuove modalità di relazione con gli stranieri venuti dall'altra sponda del Mediterraneo. Le parole, le immagini possono servire a restituire una coscienza critica a chi guarda e ascolta, a condizione che non si sia semplici spettatori, consumatori di immaginari omogeneizzati. A condizione che si voglia faticare, in una continua e costante negoziazione dei significati. Così la voce di Erri De Luca, che ha scritto il commento sonoro del film, ribadisce il suo invito a rifiutare il vocabolario degli stereotipi, per andare oltre e cercare la verità: «sono i partiti da una tavola di fame, da una guerra, da una siccità, da cavallette. Questi partiti non hanno avuto libertà, perché libertà era restare. I pubblici poteri chiamano ondate le spinte migratorie. Con la parola ondate suggeriscono che una terra ferma deve alzare barriere, contro le inondazioni. È un vocabolario falso. Sono invece flussi di una nuova forza, energia, che rinnovano le fibre di una comunità invecchiata. Non sono ondate, sono flussi. Non invadono, invece irrorano».

(pubblicato nel volume uscito per i 70 anni del quotidiano «La Sicilia», gennaio 2015)

Il cinema di Francesco Alliata

Il cinema racconta storie. E così facendo, racconta la nostra storia. Anche il cinema che è stato girato vent'anni o sessant'anni or sono ci parla di noi, di ciò che siamo stati e di ciò che siamo diventati adesso. Ogni film di valore è una macchina del tempo, che attraverso la luce filtrante da una pellicola ferita sa dirci chi vogliamo essere.

Ed è così che il cinema di Francesco Alliata di Villafranca riempie i nostri occhi di passione per la Sicilia e di voglia di restituire ciò che di più bello e di più sconosciuto l'isola nasconde. Tutto il cinema di Alliata è una sfida. Da operatore di guerra, penetra con l'Arriflex di ordinanza nel Duomo di Messina in fiamme. Tra crolli di travi lignee e vampate del fuoco, prova a riportare a casa la pelle, insieme alle ultime immagini di una delle chiese più sorprendenti di Sicilia. Finita la guerra, “scopre” le isole Eolie. Nessuno, nonostante la loro seducente bellezza, aveva avuto modo di osservarle dal vivo, né al cinema, perché erano state negate alla fruizione pubblica e destinate a servire da carcere borbonico prima e da confino politico durante il fascismo. Per cento anni, nascoste allo sguardo di tutti, eccole invece, magicamente restituite a tutti gli spettatori interessati. E scrivo magicamente, perché questo Alliata è anche un prestigiatore della tecnica cinematografica. Non soltanto un grande fotografo e operatore di ripresa, ma anche inventore e innovatore, pronto ad affrontare sfide sempre nuove.

Il 16 agosto del 1946, in Cacciatori sottomarini, per la prima volta, grazie a un guscio impermeabile di ottone per la sua fedele Arriflex, che ha riscattato economicamente dopo la guerra, può filmare le prime riprese subacquee in mare aperto, le prime della storia del cinema mondiale, per intenderci. Così, qualche anno dopo, in Tonnara (1947), deciderà di filmare la cattura dei tonni immergendosi nella camera della morte di una mattanza sanguinosa, e filmando, dalla soggettiva della preda, una delle tecniche di pesca più antiche del Mediterraneo. Continuerà a inventare altri strumenti di ripresa sempre funzionali alla diegesi dei suoi film e mai come superficiali effetti speciali. Nasce così l'iposcopio, per filmare la “caccia” del pesce spada con la fiocina, in Tra Scilla e Cariddi (1948). Lo scafandro, utilizzato nei film precedenti, è troppo statico e non permette di filmare gli inseguimenti del pesce spada nello Stretto di Messina, per questo Alliata di volta in volta trova una soluzione, un adeguamento di carattere tecnico.

Questo era il cinema in quegli anni eroici, in cui non esisteva la GoPro Hero e tutto sembrava impossibile e irraggiungibile. Ma si lottava per riuscire, si cercava e cercava, fino a quando non si inventava qualcosa di nuovo. Per tutti questi motivi, ricordare oggi Francesco Alliata non serve soltanto a commemorare un grande regista scomparso, ma anche a indicare ai giovani spettatori, agli studenti universitari di cinema, che la nostra storia cinematografica è basata sulla competenza tecnica, sulla professionalità, ma anche sul rischio, sulla voglia di mettersi in gioco e sull'inventiva. I grandi maestri documentaristi siciliani ci hanno indicato una strada, che è impervia e per questo avventurosa. Ma, bisogna ricordarlo: il futuro è nelle radici.

(pubblicato su «Movie in Sicily» n.4 del 2015; guarda il video su YouTube)

Luce e parole

La fotografia di un luogo. Una stanza vuota, con larghe finestre, invasa dalla luce. Un'immagine silenziosa, secondo una sinestesia automatica nella percezione audiovisiva.

Sarà la luce che blocca tutto, a fissare un istante di vuoto. Per questo percepiamo un silenzio ovattato. Come di chi deve tacere, di chi è costretto a tacere.

Basterebbe cambiare atteggiamento, disporsi all'ascolto, cercare di sentire tutto, con attenzione, prendendosi il tempo necessario. E allora sarebbe possibile udire una voce, anzi tante voci. Tante voci confuse, non dialoganti. Voci che si sommano, che fanno mucchio disordinato, che non veicolano parole concatenate in concetti, che non costruiscono frasi di senso compiuto. Voci che chiedono, che espongono, che rivendicano, che affermano, che minacciano, che implorano.

Aria di Franco Migliorino non è un documentario narrativo. Non è fatto per una lettura piana e distaccata dello spettatore. Non si sta in poltrona di fronte al Meraviglioso mondo di Quark. Perché non possiamo concederci questo distacco, se vogliamo restare umani. La distanza con il soggetto da analizzare, da raccontare, da rappresentare, è annullata, poi tutto appare lontanissimo, poi è ancora accanto a noi, vicino a noi, dentro di noi.

Barcellona Pozzo di Gotto, ospedale psichiatrico giudiziario, OPG.

Negli anni Trenta, si chiamava manicomio criminale. Ospedale e insieme carcere, con le sbarre alle finestre, con gli infermieri come secondini, corpulenti e sbrigativi, pronti a immobilizzare tutti e tutto, con le restrizioni e la disciplina, con i confini, i muri, i limiti. E senza le parole. Perché le parole fanno la rivoluzione. Perché le parole sono sempre pericolose.

Per questo Franco Migliorino dà voce a queste parole. Le sceglie, le ordina, costruisce un discorso compiuto, anche se esitante e non sempre coerente. Perché la vita è esitante e non sempre coerente. E di più lo sono le vite dei reietti, a cui è negato tutto, a cui è imposto il silenzio di quella luce abbagliante che irrompe nelle stanze vuote. Nei gabinetti scientifici ordinati e lindi, in cui accadono cose inenarrabili, in cui i trattamenti hanno il sopravvento sulle persone.

Cosa resta da vedere? Cosa resta da ascoltare?

(Guarda Aria di Franco Migliorino su YouTube)

Primavera in Kurdistan

Primavera significa rinascere. Morire e poi rinascere. Spezzarsi per rinascere. Germogliare. Parlano i terroristi del PKK. Parlano e camminano tra le montagne al confine tra Iraq e Turchia. In una terra che non c’è. Che esiste solo nella mente e nel cuore di un popolo. Che esisteva nella lingua, ormai dispersa, negata. Che esiste nei sogni, che imbracciano il fucile. E non basta il profumo della primavera, non basta lo scorrere scrosciante di un torrente, non basta la lana delle pecore, non bastano i sorrisi, i seminari femministi, le bandiere controluce, i cartelloni con la faccia del presidente Apo (imprigionato e drogato, ormai traditore della parola data), non basta tutto questo. Siamo intorno al fuoco di bivacco, e l’operatore chiede al terrorista: – cosa hai paura di perdere? Silenzio. Ci sta pensando. Risponde: – i ricordi. Perdere i ricordi. Unico tesoro del popolo che non c’è. I ricordi sono l’unico segno di appartenenza. L’unico segno di identità. Sono la cicatrice che si sente al tatto, la traccia di qualcosa che è stato armonia e poi dolore. E poi il ricordo di ciò che si era e di ciò che si è diventati. Perché la cicatrice è appartenenza. È sangue misto alla terra, misto all’acqua e all’erba e alla lana delle pecore. E tutto questo vale più della vita e della morte, della tortura con la corrente elettrica sui genitali. Vale più degli occhi per vedere e delle gambe per camminare. I ricordi sono la radice di tutto. Perché i ricordi sono identità.

(Primavera in Kurdistan è su YouTube)

Perché io scrivo

Io scrivo di cinema. E già questa è una contraddizione in termini.

Scrivere è qualcosa che resta. È un segno nella roccia, una nervatura contorta del marmo, una vena ramificata che traccia figure permanenti. Il cinema no.

Il cinema è il movimento del fuggire. È arte senza passato. E anche la stolida fotografia, intesa come scrittura della luce, cerca invano un supporto. Cerca una striscia di celluloide che la fissi e la conservi. E dura poco. Un battito di palpebra o di otturatore. Ventiquattro battiti in un secondo, ventiquattro sospiri, respiri affannati. Senza sosta. Mai.

La scrittura quindi non funziona. Ci gira intorno. Scrivere di cinema è sempre scrivere intorno al cinema.

Anche adesso, mentre ci provo, inseguo con la coda dell’occhio le immagini rarefatte e assurde di Dušan Makaveiev: Sweet movie, un film dolce tradotto da Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini. Provo a sbirciare la luce di un fiume, un battello, seni nudi di una donna bellissima e vergine. Andrà sposa a un re, forse. Forse fuggirà via da lui e da noi, dal nostro sguardo ingordo. Dal nostro sguardo ingordo e famelico della sua bellezza nuda, dei suoi seni piccoli e dolci da succhiare. Forse.

Il cinema è l’arte dei forse. Si sommano e si mischiano tutti insieme e fanno il cinema. Non è serio come la scrittura il cinema. Vuole occhi diversi. Cerca occhi diversi. Meno educati, meno condizionati da una cultura antica e prepotente. Il cinema e Socrate non vanno tanto d’accordo. Non è λόγος, non è parola organizzata, pensiero strutturato. È luce che filtra. È luce che eccita. È luce che brucia. Se c’è una forma di scrittura che si avvicina al cinema allora forse è la poesia. Se non altro per l’ebbrezza. Ecco, il cinema è ubriaco di luce e di poesia. Non tutto il cinema, certo. Quello di Pasolini sì. Per il resto è un sogno confinato dentro un rettangolo. Dentro la cornice di un quadro. Dentro l’argine, il letto, il margine dell’inquadratura.

Cocteau sospira e dice: il film è un sogno che si pietrifica. Prima c’era un sogno. Poi viene il disegno, il progetto, l’idea, l’aspirazione. Poi c’è il film. Elettricisti, macchinisti, registi, costumisti, attrezzisti, attori e truccatori. Il cinema è l’arte del trucco e del parrucco, dei trasformisti e delle trasformazioni. Delle bugie, che sembrano vere. Delle verità nascoste. Della realtà rimossa, negata, tradita. Quando il sogno si pietrifica resta solo la pietra. Il sogno non c’è più. È scomparso tra l’idea e l’aspirazione di un attrezzista o di un macchinista. Il sogno è scomparso nel tempolavoro che è già pietra. Nel tempo che passa, segnato dallo scorrere della pellicola, dei fotogrammi che non sono più. Di questa mia scrittura che segue e insegue e non lascia traccia. Sogno di carta intorno a un sogno di pietra.

(pubblicato…)

Memoria volatile

C'è stato un tempo in cui ricordavamo i numeri di telefono. I telefoni a disco non permettevano di memorizzare la posizione delle dita sulla tastiera (posizione nello spazio, sviluppo sincronico, memoria visiva), quindi al nostro cervello non restava che articolare i numeri come i nomi nella nostra memoria, oppure incatenarli come filastrocche in sequenze di suoni da memorizzare (sviluppo diacronico, memoria uditiva). Bastava pronunciarli in maniera diversa, raggruppare i numeri a tre cifre anziché a due, e già la trasmissione orale non funzionava più e non ci si intendeva sul nome/numero da trasmettere. Era il mondo magico delle favole e dei proverbi, in cui l'oralità era parola e suono, ritmo e armonia.

C'è stato un tempo in cui si scrivevano i bigliettini. L'amicizia, la stima e l'amore venivano scritti, descritti e comunicati sulla carta, su pezzettini colorati, a volte profumati, di carta o cartoncino o “pizzino” o post-it (c'erano già e potevi piegarli e incollarli, con il messaggio conservato dentro). La parola era anche segno, anche curva e svolazzo, grafia tondeggiante o puntuta. I bigliettini erano impronte d'inchiostro della nostra memoria relazionale, della nostra “corrispondenza”, altro termine bellissimo e carico di rimandi amorosi e affinità elettive.

C'è stato un tempo in cui la memoria aveva supporti stabili o faceva affidamento su una mente attiva e reattiva, allenata al ricordo.

Adesso c'è un arretramento, un imbarbarimento quasi, della nostra capacità di organizzare e trattenere i ricordi. Tutto ciò che ci riguarda è conservato in files, organizzato in cartelle e registrato su memorie digitali. Schede sd, pen-drive, cd e dvd, memorie interne dei telefonini cellulari, hard-disk portatili, mmc e cf, tutto un armamentario di sostegni flebili e inaffidabili, tutta una rete di deleghe improvvise e improvvisate, di responsabilità che scivolano via per essere negate e rinnegate. Adesso non ricordiamo più niente, non tratteniamo alcun dato che possa essere contenuto e mantenuto da una “memoria esterna”. Ed è così che la nostra memoria viene detenuta. La sua libertà è confinata nelle limitate possibilità e nelle specifiche caratteristiche di “cose elettroniche”, di “oggetti ditali”, di strumenti e apparecchi, di devices. Quella che sembrava una risorsa rischia di divenire una condanna e la paura più grande è quella di perdere tutto. Tutti i dati, tutti i sostegni e quindi tutti i ricordi. Per questo ci affanniamo a memorizzare tutto 2 volte. Il secondo mostro della memoria digitale si chiama back-up. Ovvero la ridondanza dei dati, possedere 2 copie di tutto, della lettera alla banca e di quella all'innamorata. Per questo, in questa ossessione compulsiva di mantenere la memoria stabile e sicura, ho acquistato 7 hard-disk, per un totale di quasi 2,5 terabyte, cioè 2.500 gigabyte, cioè 2.500.000 megabyte, cioè l'equivalente di circa 1.736.111 floppy-disc, unmilionesettecentotrentaseimilacentoundici dischetti, per contenere le mie fotografie, i miei film, i videoclip, la musica, i documenti, le e-mail, le suonerie del telefonino. A parte i vestiti, i libri e i detersivi, c'è dentro praticamente tutta la mia casa. C'è tutto me stesso dentro queste “periferiche esterne di memoria”. C'è tutta la mia vita, tutta la mia esistenza dal 1994 a oggi. La mia tesi laurea, i libri e gli articoli scientifici, gli articoli giornalistici per diventare pubblicista, gli appunti e i progetti dei miei corsi e dei laboratori tenuti, le tasse pagate, le lettere private agli amici e alle innamorate (in 15 anni mi vedo costretto a usare il plurale). C'è la nascita di mia nipote Martina, la fotografia del suo primo giorno di esistenza, a bassa risoluzione, scattata con il telefonino e ricevuta con un mms. C'è la fotografia della sua prima settimana, del primo mese, dei primi gattonamenti, dei primi passi barcollanti, la registrazione video della prima volta che dice «papa» (riferendosi al proprio genitore e senza alcun riferimento politico alle posizioni conservatrici di benedetto decimosesto). C'è il video del battesimo e sì, lo confesso, anche quello del bagnetto (lo perdonerà mai, Martina, lo zio videomaker che si presta a fare l'operatore di ripresa per il bagnetto?). C'è tutto. Sensazioni, emozioni, sentimenti, risentimenti. Tutto attaccato a un cavetto usb, a un lettore di schede, a un hard-disk da 2,5” o da 3,5” o chissà da quanti pollici li stanno progettando per l'immediato futuro.

Ma poi succede l'imprevisto. Banale, ma dalle conseguenze catastrofiche.

Lo zio tecnologico decide di registrare Martina che risponde al telefono, dicendo: «pondo?»... e, per spostare un file, un singolo stupido file audio, cancella sulla memoria del telefonino 3 anni di sms, 3 anni di contatti e di confidenze, 3 anni di relazioni pubbliche e di privatissime complicità. «Attendere prego, i dati sono stati spostati regolarmente». Regolarmente dove? Spostati in quale recondito buco nero della galassia? i dati non esistono più, perché la scheda è stata formattata, cancellata, sovrascritta. Quella scheda che mi aveva costretto a ri-comprare lo stesso modello di telefonino quando il suo predecessore si era suicidato gettandosi dalla tasca della mia camicia, mentre mi allacciavo le scarpe, cadendo direttamente dentro il gabinetto. Da vero cestista avevo fatto centro e, nonostante la rapidità con cui mi premurai a raccogliere il primo nokia n70 dalla pozzetta d'acqua e il tentativo in extremis di asciugarlo sul termosifone, non restava tanto da vivere al prezioso telefonino. Esalò ben presto l'ultimo sbrilluccichìo del suo monitor e mi abbandonò definitivamente. Ma la scheda di memoria era intatta e quindi bastava comprare un telefonino identico per ritrovare tutti i dati. E così è stato. Dati ritrovati e disastro scampato. Fino a ieri sera, quando i dati sono stati “spostati regolarmente” nel nulla.

Dicono ci sia uno sciamano, che riesce a “resuscitare” le micro-sd dei telefonini. Vive in cima a un monte, dentro una capanna. Si ciba di radici e di cortecce. Ho seguito il suo vaticinio, on-line su un forum utenti (Lui comunica solo così a noi comuni mortali), e ho scaricato da internet alcuni software per il recupero dei dati. Girano solo su Windows. E già questo non depone a loro favore. Ma non mi resta che sperare. Se i recover non funzioneranno e i dati resteranno nel “limbo degli zero e degli uno”, dispersi insieme ai bambini non battezzati e agli uomini morti prima dell'avvento della vera religione, allora la mia vita avrà un buco. La mia esistenza sarà priva di 297 sms di ricordi sociali, politici, sentimentali, istituzionali, amicali, augurali, benedicenti e maledicenti, ricordi personali di eventi pubblici, e l'affetto di un amico maestro che ora non c'è più. Treccine di 160 caratteri che erano capaci di comunicare quanto un intero volume della Treccani, haiku stupendi di estrema leggerezza eppure profondi e poetici a volte, sciatti o criptati altre. Una storia privata cancellata da uno stupido clic frettoloso.

Resta solo il mio spugnoso cervello, che un po' ricorda e un po' no, che si era disabituato all'esercizio della memoria e che ora è meglio che si rimetta a lavorare, per sopperire, rimediare, per ricostruire.

(12 aprile 2009, 11:51)

Mai dire mai

Fine pena mai. Sul fascicolo di ogni condannato all'ergastolo campeggia una formula che è insieme il titolo e il senso più profondo della condanna. Sarebbe una headline, se si trattasse di un commercial pubblicitario, sarebbe il richiamo perfetto all'attenzione del pubblico della Società dello Spettacolo. «Fine pena mai». Ma che cosa significa? Che si deve restare dentro fino a quando si muore di vecchiaia? Che hanno chiuso dentro il detenuto e hanno buttato via la chiave? Che la sua vita civile è terminata?

Certo la condanna all'ergastolo dà serenità a chi sta fuori, perché isola e allontana per sempre il criminale che ha ucciso, che ha commesso omicidi o stragi. L'ergastolo è la pena delle pene, quella assoluta, quella senza soluzione. Il mostro è stato catturato e ora è rinchiuso. Pensiamo alle vittime e ai loro familiari. Finalmente avranno giustizia. Fine pena mai. È giustizia vera sapere che il colpevole di un atroce delitto è stato definitivamente eliminato dalla vita sociale, espulso per tutto il tempo che gli resta da vivere. Ma è davvero così? Il condannato è un mostro da espellere o resta pur sempre un uomo da considerare nella sua essenza umana? Il criminale che ha delinquito ed è stato condannato perde per questo la sua natura umana?

La Costituzione all'art. 27 prevede che l'espiazione della pena debba avere un valore riabilitativo. La pena deve essere sì remunerativa (cioè il condannato, con il suo tempo di detenzione, in qualche modo ripaga la società del proprio errore), ma deve permettere anche il recupero del detenuto. Per questo la legge prevede che in carcere ci sia la scuola (la mancanza di istruzione è statisticamente rilevante per i detenuti di mafia e di camorra, che sono la maggioranza degli ergastolani), che ci siano vari corsi e laboratori (informatica, pasticceria, giardinaggio, cineforum, teatro), che ci sia un percorso trattamentale, espletato con grande spirito di sacrificio da educatori, psicologi e psichiatri. Tutto questo serve a riabilitare a livello sociale il cittadino detenuto, ma significa anche, lentamente e inesorabilmente, recuperare l'essere umano a livello etico. Riabilitare e recuperare, esattamente come sostiene la nostra bellissima Costituzione. E allora l'ergastolo? La condanna a vita? L'art. 27 della Costituzione si infrange proprio su questa assolutezza della condanna: fine pena mai.

Per questo motivo, per invitare alla riflessione tutti i cittadini su questa assurda incoerenza tra principi etici e attuazione concreta della condanna, dal 2 marzo all'8 marzo ci sarà un'iniziativa civile intitolata Mai dire mai, che prevede anche lo strumento pacifico dello sciopero della fame. Inoltre, 738 detenuti italiani hanno già presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo, chiedendo di pronunciarsi sulla pena dell'ergastolo in Italia.

Noi abbiamo deciso di aderire allo sciopero della fame e di dare voce a questa iniziativa con questa lettera aperta. Non offriamo soluzioni, ma poniamo delle domande, chiediamo a chi legge di riflettere sui concetti di colpa, di condanna e di espiazione della pena, di riflettere per capire cosa comporta la formula «fine pena mai», cosa comporta a livello morale, cosa comporta a livello sociale. Senza essere giuristi, né condannati, né familiari di una vittima, ma come semplici cittadini italiani che si interrogano sul mondo civile di cui sono parte.

(2-8 marzo 2009)

Io sono Alessandro

Chi mi conosce un po', almeno qui su Facebook, sa che non intervengo mai nel dibattito politico soprattutto se si carica di una ridondanza mediatica – terrifica spinta centrifuga – che lo spinge quasi subito fuori controllo, tra mille rivoli di idee smozzicate.

Mi sottraggo. Sto in silenzio. Leggo molto e commento pochissimo.

Oggi, invece, a distanza di qualche giorno dai fatti di Parigi, sento il desiderio di esprimermi, di fare chiarezza su alcuni punti che considero imprescindibili. E vorrei partire dai fatti.

Fatto: la Francia è una Repubblica «indivisibile, laica, democratica e sociale». In Francia, due gruppi armati di terroristi hanno ucciso e ferito circa venticinque vittime.

Fatto: con un'indagine di polizia, che si è rivelata rapida ed efficace, i terroristi sono stati identificati, inseguiti, scovati nel proprio rifugio temporaneo e uccisi.

Fatto: una gran parte della popolazione francese ed europea ha reagito prontamente a questi attentati con un moto di orgoglio, rivendicando l'importanza delle proprie regole: la democrazia, la libertà di pensiero e di espressione, il rispetto interculturale.

Fatto: i terroristi erano tutti musulmani e rivendicavano un ruolo delle proprie scelte religiose, nelle loro azioni terroristiche. Alcune delle vittime erano musulmane, alcune ebree, alcune cristiane, alcune atee.

Questi sono i fatti, incontrovertibili e indiscutibili, possiamo ora venire alle ipotesi e alle riflessioni che dai fatti devono sempre originare.

Ipotesi: Lucia Annunziata, che interviene in un dibattito “a caldo”, la sera stessa dell'attentato al giornale satirico Charlie Hebdo, dice che non si tratta di terrorismo, ma di una guerra. Giuliano Ferrara, il giorno dopo, a Servizio Pubblico, precisa che si tratta di una Guerra Santa da parte dell'Islam, nei confronti della Cristianità. A completare questa interpretazione, intervengono il quotidiano «Libero», che apre con la foto del terrorista che spara a sangue freddo un colpo in testa a un poliziotto ferito per terra e intitola la prima pagina così:«Questo è l'Islam»; e il segretario della Lega Nord che sostiene che ci sono sei milioni di musulmani pronti a sgozzarci nel pianerottolo di casa, perché è la loro religione a determinare odio e violenza. Alla base di tutto c'è, secondo lui, l'immigrazione clandestina, perché sicuramente tra le centinaia di migliaia di clandestini provenienti da scenari di guerra, come la Siria, si cela certamente qualche terrorista islamico.

Ipotesi: al primo dibattito, su La7, interviene anche Lia Quartapelle (Deputata del PD), che parla di azioni terroristiche che nulla hanno a che vedere con l'elemento religioso.I due attentatori sono assassini e passa in secondo piano che siano musulmani. Anche il poliziotto freddato con un colpo alla testa, era di fede islamica: ciò dimostra che chi ha colpito Charlie Hebdo è un criminale, punto e basta. In uno scontro aperto con Matteo Salvini, poi precisa che gli attentatori sono francesi, perché sono nati in Francia, e non c'è nessuna correlazione tra immigrazione e terrorismo.

La reazione della Rete è, come sempre avviene in questi casi, massificante. Un numero straordinario di utenti sceglie di testimoniare la propria solidarietà alle vittime di Charlie Hebdo, condividendo uno slogan semplice e immediato: «Je suis Charlie». Immagini, articoli e commenti invadono i social network e nelle bacheche di Facebook cominciano a fronteggiarsi le prime contrapposizioni: da una parte chi sbrigativamente vorrebbe allontanare tutti i musulmani dal territorio europeo, dall'altra chi sostiene che il giornale satirico aveva però offeso una religione (con sfumature che arrivano gradatamente fino al «se la sono cercata»). Il clamore crea nuove posizioni: si dichiara solidarietà al poliziotto musulmano, «Je suis Ahmed», si cominciano a distribuire patenti di “amanti” della libertà incondizionata di espressione e di “rinnegati” che, in tempi non sospetti, hanno accettato o applaudito all'esilio di Luttazzi e dei fratelli Guzzanti dai canali televisivi nazionali.

Le opinioni prendono il posto dei fatti e diventa tutto un precisare la propria posizione e un precisarsi in termini di identità. Io sto qui, io sto con questo, io sto contro quell'altro.

Ora io vorrei solo esprimere quello che penso, senza cercare il mio posto all'interno di un dibattito che è diventato asfittico e sterile.

Io sono Alessandro significa che non mi iscrivo a nessun gruppo, non prendo nessuna tessera e rifiuto ogni patente. Ragiono con la mia testa, anche se non posso prescindere da tutti i pregiudizi culturali del mio tempo e della mia storia personale.

Penso che sia molto pericoloso sostenere che in questo momento, in Europa, sia in corso una guerra di civiltà, tra musulmani e cristiani. E oltre a essere pericoloso, io sono convinto che sia falso. Ho molti amici musulmani e un amico musulmano per me è come un fratello. Qualora ci fosse in atto una guerra, io e lui dovremmo combattere in fazioni diverse, in eserciti contrapposti. Questa sarebbe la soluzione? A parte la stupidità della posizione di Lucia Annunziata e la malafede di Giuliano Ferrara e di Matteo Salvini, c'è qualche italiano che vorrebbe contrapporsi ai propri conoscenti o amici musulmani, che vorrebbe espellerli o trucidarli per difendere un'identità cristiana? Perché è di questo che stiamo parlando. La guerra è questa cosa qui, si uccide il nemico per difendersi. Le parole sono portatrici di concetti, di idee, di volontà. E le posizioni in campo, che io vedo, sono due. O crediamo di essere in guerra o crediamo di essere in pace. Se lo chiamiamo terrorismo, allora la risposta – come scrive Michele Serra – è la normalità. È continuare a vivere facendo ciò in cui crediamo, perseguendo le nostre idee, amando il nostro mondo, la nostra democrazia e la libertà di espressione, di credo, di orientamento sessuale. Non deve cambiare nulla, nel nostro mondo. Dobbiamo impegnarci tutti, insieme, a sconfiggere il terrorismo con le uniche armi che non sono sporche di sangue, la razionalità e il dialogo. Quindi non dobbiamo chiedere nessuna abiura ai musulmani, nessuna professione di pace speciale, nessun pronunciamento particolare in favore di qualcuno o contro qualcos'altro (come richiesto dall'assessore leghista all'istruzione della Regione Veneto). Come a noi siciliani non si chiede, giorno per giorno, di dichiararci non appartenenti a Cosa Nostra, allo stesso modo non dobbiamo pretendere che i musulmani debbano dare testimonianza di nulla. I musulmani sono le prime vittime del terrorismo, basta guardare ai Paesi del Medio Oriente. E anche in Francia, Ahmed, il poliziotto ucciso a sangue freddo, è stato vittima del terrorismo perché ha tentato di difendere quegli stessi vignettisti che dileggiavano la sua e le altre religioni. Non possiamo arretrare, ancora una volta, come dopo l'11 settembre, alle posizioni di George W. Bush e del suo governo con le mani grondanti di sangue. Abbiamo visto cosa ha prodotto il Patriot Act, abbiamo visto le immagini di Abu Ghraïb, abbiamo saputo delle torture sistematiche e improduttive di Bagram e di Guantanamo, abbiamo visto i morti carbonizzati dal fosforo bianco a Falluja. Non è lo scenario della guerra, la soluzione. Non lo è mai, ma in particolar modo non lo è adesso, strategicamente. Perché chi ha sparato alla redazione di Charlie Hebdo, chi ha assassinato i clienti ebrei di un supermercato, è nato e cresciuto in Francia, nel ricco e sicuro Occidente. È figlio nostro, fratello nostro. Non è venuto da terre lontane con il suo carico di invidia e di odio, lo ha coltivato qui, andando a scuola insieme a noi, prendendo l'autobus insieme a noi. Come è possibile tutto questo? Perché un francese deve sentire una spinta identitaria nei confronti dell'ISIS o di Al Qaïda?

Tempo fa, ho scritto un breve saggio sull'autorappresentazione audiovisiva in funzione della negoziazione della identità, per un gruppo di giovanissimi abitanti dei cosiddetti quartieri a rischio di Catania. Erano i “carusi quatteroti”, declinazione nostrana dei “bimbiminkia”. Da Picanello e da Librino, venivano realizzati e condivisi su YouTube degli slideshow inneggianti a Totò Riina e Bernardo Provenzano, contro le forze di polizia (A.C.A.B.), da colpire e uccidere, come “eroicamente” Spitaleri aveva fatto con l'ispettore Raciti. I nostri adolescenti, nati e cresciuti a Catania, si sentivano mafiosi. Anche se nati dopo la cattura di Riina, per loro il Capo dei Capi restava l'unico vero eroe da ammirare ed emulare. Abbiamo forse pensato che fossero veramente dei mafiosi? Abbiamo pensato di imprigionarli tutti o cacciarli fuori dalla nostra città? Abbiamo capito, invece, che si trattava di un problema di inclusione sociale. Quei ragazzi e le loro famiglie erano rimasti indietro. Andavano – e vanno, perché il problema non è affatto risolto – aiutati, incoraggiati, inclusi nel tessuto sano della nostra società. E così vanno riabilitati. Allo stesso modo, si devono studiare processi di inclusione nelle grandi capitali europee, per i ragazzi delle banlieue, come per i giovani delle periferie londinesi. Si tratta degli stessi problemi, con la differenza che i miti – sanguinari, violenti e pericolosi – di Cosa Nostra o di Gomorra ci sono più “familiari” e ci fanno meno paura dell'ISIS o di Al Qaïda.

Io sono Alessandro e questi sono i miei principi, le mie idee e le mie proposte di confronto. Non sono Charlie, non sono Ahmed, non sono Salvini né Ferrara. Non ho paura di nessuno e non ho nemici. Solo il buio della ragione mi spaventa.

(nota su Facebook, 11 gennaio 2015)

Bende Sira

Sono a Berlino dal 9 novembre e ancora per poche ore prima di tornare a Catania.

Ci sono 2 gradi e ieri è nevicato tutto il giorno, ma nelle sale del Babylon, dove ormai vivo accampato da 3 giorni, non si soffre certo il freddo. Qui è pieno di studenti di cinema, che seguono tutti i programmi, dalle retrospettive ai dibattiti. Però adesso non voglio parlarvi di questo, ma di un cortometraggio che ho visto.

Di solito non mi trovo d’accordo con le giurie per l’assegnazione dei premi. Anche quando mi è capitato di far parte di una giuria non mi sono trovato d’accordo con gli altri giurati (quindi sembra essere un problema mio). Ma stavolta no. Il film che ha vinto il premio per il migliore cortometraggio tedesco ha avvinto e mi ha vinto.

Si intitola Bende Sira (it’s my turn). In realtà è un film turco, di due autori tedeschi di origine turca. E questo forse è ancora più bello e più importante in Germania. Il film è in lingua turca, senza sottotitoli in tedesco, né in inglese. Ma non importa, perché si capisce lo stesso. E anche questa è una cosa bellissima.

Siamo in un cortile della periferia di una città turca un luogo di giochi, di incontri di amicizie tra bambini. È la Turchia, ma potrebbe essere la Sicilia, potrebbe essere Ragusa, dove io da bambino giocavo a pallone, usando come porta la saracinesca di un garage. Insomma, un luogo d'infanzia per ognuno di noi, almeno per quelli cresciuti prima dell’avvento della playstation.

Siamo lì, insieme a 5 bambini di 10 anni e a una bambina più piccola, la sorellina di uno di loro; i bambini fanno la conta e lei aspetta seduta su una panchina, con il suo coniglio bianco di pezza stretto tra le braccia. I bambini fanno la conta, cantilenando una canzoncina antica e insensata, come sono sempre le filastrocche quando fai la conta. Non stanno formando una squadra per la solita partita di calcetto; stanno scegliendo uno di loro, un privilegiato. Tocca al ricciolino: è uscito lui stavolta. Ed è felice, è raggiante per questo. Tutti i compagni lo incoraggiano: si frugano nelle tasche e mettono insieme un gruzzoletto di monetine. E lui raccoglie il piccolo tesoro e va al cinema. Perché è questo il premio, andare al cinema. Gli altri lo aspettano fuori. Non ci sono soldi per il biglietto di tutti. Allora si tira a sorte. Ma chi resta non è escluso perché, quando il ricciolino torna, racconta tutto per filo e per segno: i mostri cattivi e gli assalti e la paura delle vittime e la loro fuga… Tutto, proprio tutto: lo racconta e lo mima. E gli altri intorno a lui e la bimba piccola sulla panchina stanno ad ascoltarlo. E il giorno dopo toccherà a un altro di loro, quello più alto e coi capelli corti. E lui vedrà invece un film d’amore e mimerà al gruppo i baci e gli abbracci. Perché il cinema è questo. È vedere qualcosa e poi parlarne con gli altri. È raccontare una storia e condividerla. Bende Sirait’s my turn.

Adesso è il mio turno. Sto qui in un caffè di Postdamer Platz, a scrivere e raccontarvi di cinema turco in Germania e dei bambini che fanno la conta, per vivere nuove storie d’amore o d’avventura. È il mio turno e vorrei guardarvi in volto mentre leggete, mentre partecipate alla mia storia di bambini turchi e di freddo berlinese. Mentre partecipate con me al sogno di un cinema partecipato e condividete con me il sogno di un cinema condiviso. A voi tocca il prossimo racconto. Questo è il mio turno.

(Berlino, novembre 2007

nolo

Scrivere e descrivere. Esprimere con parole ciò che si è visto in forma di immagini. Raccontare ciò a cui si è assistito. Narrare ciò di cui si è stati testimoni, spettatori, pubblico pagante (in denaro, in tempo, in attenzione). Perché in principio è il verbo, la parola. E la parola è verità. Ma la parola che dice l'immagine è menzogna. È meno o è più o è altro rispetto all'immagine e perfino rispetto allo sguardo.

La parola nomina le cose e le dichiara esistenti. L'immagine invece scivola e accarezza i contorni delle cose e le bagna di luce riflessa. Ogni immagine è solo luce riflessa, è il rimbalzo arcuato di una traiettoria luminosa, di un impeto di energia, di uno slancio rifratto e spezzato e smorzato e appannato, di un taglio ammorbidito come  cocci verdi di bottiglia, sulla spiaggia, che si fingono smeraldi. E quando la parola che nomina l'immagine si conosce come menzogna, e continua a dire e indicare e affermare e dichiarare e sostenere, allora si dà come inganno.

Tra la menzogna e l'inganno c'è la volontà, c'è il dolo.

(nota su Facebook, 2 novembre 2010)