Biniditta la scienza, biniditta
Nel 1956, l’Agip Mineraria, dopo aver ottenuto un ampio mandato esplorativo dalla Regione Siciliana, scopre la presenza di giacimenti petroliferi nella piana di Gela. Tutta quella zona della Sicilia viveva in uno stato di assoluta indigenza, determinato soprattutto dall’arretratezza della sua produzione agricola, condotta ancora con obsolete tecniche di coltivazione. E, proprio in questo contesto di disagio socio-economico, nasce l’infatuazione di Gela per l’A.N.I.C., l’Azienda Nazionale Idrogenazione Carburanti.
Gela antica e nuova è il documentario che racconta di questo innamoramento dei siciliani per l’industria chimica, che ha comportato una mutazione radicale della società contadina di quella zona, della sua cultura tradizionale, dell’economia e dell’urbanistica, della politica e della sua stessa identità. Commissionato dall’E.N.I. e diretto, nel 1964, da Giuseppe Ferrara, Gela antica e nuova si pregia di un testo scritto da Leonardo Sciascia, recitato da una voce fuori campo, che accompagna e presenta il punto di vista del committente.
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Catania in Wonderland
La rappresentazione audiovisiva di una città non è un monolite. Non è un blocco unico di sguardi e di figure. È piuttosto una rete di relazioni e di giochi di luce, un nodo di sequenze e un mosaico di inquadrature, un labirinto di passioni, di paure e di desideri. Non esiste l’immagine della città, esistono le immagini della città. Immagini che si abbracciano o si contraddicono. Che si inseguono o cozzano e si infrangono, tra le scintille dei lapilli e la schiuma del mare.
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Il cinema hard-core come campo di differenze
Questo testo propone un'analisi estetica del cinema hard-core. Non vi sono legami con studi sociologici, né antropologici, né psicologici; non sono espresse posizioni politiche, né convinzioni morali. È una ricerca di mero carattere estetico, che attraverso il linguaggio audiovisivo, la tecnica di ripresa e di montaggio e la tecnologia dei formati e dei supporti prova a tracciare una linea di lettura sull’esistenza di sottogeneri e costanti linguistiche all’interno della magmatica produzione del cinema hard-core.
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1860 di Blasetti, l'«intenzione di andare al vero»
I festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia sono già cominciati, con il loro inevitabile carico di retorica risorgimentale e, contestualmente, di polemiche politiche di bassa lega. Sembrava un tema accettato, morbidamente sedimentato nelle coscienze degli italiani, appreso meccanicamente nella scuola dell’obbligo e dato ormai per scontato. Ma a rileggere le sequenze vivide e tenaci di 1860 di Alessandro Blasetti, ci si accorge che ancora oggi brucia di fuoco vivo sotto un manto di cenere.
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Il cinema documentario di Alliata e di De Seta
La Sicilia degli umili e dei diseredati è un luogo comune cinematografico perché il cinema italiano, nella sua spinta realista del dopoguerra, ha adottato delle formule rigide e precise. E queste formule si sono codificate in un solido immaginario1 che descrive e racconta una Sicilia arretrata, feroce, selvaggia, illogica e perturbante. Una terra di passioni e di emozioni, che rifiuta le norme civili per rimanere vincolata a una tradizione fatta di regole e di riti ancestrali, di superstizioni e di pregiudizi.
Ma questa Sicilia bestiale, rurale e primitiva, è quella rappresentata esclusivamente dal cinema di finzione. Il documentario, per il suo linguaggio specifico e per il desiderio di scoperta e la curiosità dei suoi autori, tende invece a essere più complesso e variegato, a volte più ingenuo, altre volte diretto o scopertamente ideologico, ma sempre meno monolitico del cinema di finzione.
1 Cfr. Alessandro De Filippo, Ombre, Aitnaion, Catania 2004, pp. 234-236; cfr. anche Id., Gli anticorpi alla convenzione, in R. Sardo, M. Centorrino (a cura di), Dall'antenna alla parabola, Bonanno, Acireale 2008: «L'intrattenimento audiovisivo, insomma, mostra il suo volto conservatore: limita, confina, reprime ogni novità espressiva come un'insurrezione. La teme e la reprime. Perché l'immaginario imposto è il controllo dei pensieri attraverso il controllo del linguaggio con cui è possibile esprimerli e condividerli».
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L'immaginario tra cinema e tv
Noi immaginiamo ciò che vediamo o rappresentiamo ciò che immaginiamo? La domanda di fondo è questa: chi guida le immagini? Ci sono delle formule di rappresentazione che sono valide sempre e per tutti? Da chi sono state fissate? Quando? E soprattutto perché?
Alla base di tutto c’è il desiderio. Il desiderio, come lo intendo io, è la fantasia della volontà: è la raffigurazione fantastica per immagini del mondo che voglio. E allora senza volontà non c’è fantasia, senza fantasia non c’è desiderio, senza desiderio non c’è immaginario. Ecco, l’immaginario è tutto in questa tensione, attenzione e tendenza. Uno slancio, tendini tesi, che è già un’aspirazione razionale verso contorni di luce e di ombra, di suono o di parola. Così l’immaginario si fa, si compone, si fonda. Tutto ha origine da convenzioni linguistiche, che progressivamente si sono determinate, si sono consolidate. Le convenzioni nei linguaggi audiovisivi sono come delle stalattiti: si depositano goccia dopo goccia, fino a diventare delle strutture solide.
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La fine del gioco
La fine del gioco è nelle sue inquadrature positiviste, scientifiche, inevitabilmente armoniose. La diagonale che spezza in due la piazza assolata, il mondo, la lavagna, tra buoni e cattivi. Perché ci sono i buoni, i sani, i fanciulli vivi e vivaci nello slancio ingenuo e sfrontato del gioco del pallone; e ci sono i cattivi, i rei, che vanno raddrizzati, recuperati, salvati. Da questo concetto si comincia, da questa assurda messa in scena che si chiama educazione.
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la narrazione dolorosa
L’incipit è la prima mossa della partita a scacchi. La prima nota del concerto. Dall’incipit possiamo regolarci sul tono, sulla linea, sulla strada che il film imbocca. La prima inquadratura si accorda subito a una precisa disposizione d’animo: ci aspettiamo qualcosa, qualcosa di definito.
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Il documentario siciliano come fonte di ricerca storica
Perché la ricerca storica possa utilizzare produttivamente come fonte di studio il cinema documentario, deve prima analizzare i tre apici del triangolo della comunicazione. Non basta soffermarsi sul messaggio (cioè sul documentario, sul film), ma bisogna includere come oggetti di studio anche il contesto degli autori e le aspettative degli spettatori. Bisogna cioè includere nel processo d'analisi anche quel patto comunicativo che è segnato, indicato, definito e determinato dal circuito in cui il film documentario si inserisce, che non è mai casuale e men che mai neutrale.
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